Immaginate una macchina programmata per calcolare in che termini un determinato fenomeno può considerarsi usuale o meno. Affinché funzioni sarebbe necessario inserire una serie di dati propedeutici al confronto, rispondenti ad un senso comune di ordinarietà. L’obiettivo sarebbe quello di cogliere la discrasia (e l’entità della discrasia) tra un dato evento – il modo e le condizioni in cui si manifesta – e ciò che sarebbe lecito attendersi. Ora, quanto impiegherebbe ad implodere?
Capire cosa definiamo contemplabile, e per converso cosa non lo è, è un puro esercizio di relativismo. Matematizzare un concetto aleatorio e mutevole, e che in un certo senso sconfina a nell’etica, costituirebbe un paradosso irrisolvibile.
Abbiamo provato tuttavia a sostituirci alla macchina con l’intenzione di sollecitare quel comune senso di ordinarietà. Ne è venuto fuori un compendio di sei personaggi che hanno scardinato ogni previsione, viaggiando controcorrente, al di là delle aspettative.
6. ÉDER
Euro 2016 è stato, calcisticamente parlando, un elogio della contraddizione. La direzione che ha preso il gioco negli ultimi anni procede di pari passo con la diffusione del gegenpressing e delle sue sfumature. La tensione verso un calcio proattivo – che affonda le proprie radici in una densa preparazione – ha lasciato spazio, a causa la brevità della kermesse, ad un modello totalmente antitetico. Ed è così che in pieno luglio ad alzare la coppa è stato il Portogallo di Fernando Santos, la squadra che più di tutte ha colto i meccanismi di un Europeo scorbutico, orientato nel complesso alla destrutturazione piuttosto che alla costruzione.
E chi meglio di Éderzito António Macedo Lopes, al secolo Éder, poteva incarnare questa attitudine alla resistenza: lanciato nella mischia per far legna, assorbire gli urti e fungere da punto di raccordo, ha tirato fuori dal cilindro un gol incompatibile perfino con il suo stesso modo d’essere. Lui, centravanti old school nella terra dell’estro lusitano, ha catturato un’istantanea bella quanto inusuale, resa ancora ancora più stravagante dalla capitolazione del leader maximo, Cristiano Ronaldo. Mentre l’aurea del vero eroe – o quanto meno l’eroe designato – s’espandeva lungo il campo in maniera quasi esoterica, Éderha beffato la storia regalando al Portogallo il primo trionfo in un Europeo. Éderzito António Macedo Lopes sarà anche destinato a cadere nell’oblio, senza spazio nei grandi annali della memoria, ma quel guanto bianco con cui ha schiaffeggiato ogni canone placa l’angoscia dell’inaspettato. Quando tutto va come non dovrebbe andare. E va ancora meglio.
5. EDIN DZEKO
Si parlava di contraddizioni e spunta Edin Dzeko, uno che ha un discreto feeling con il concetto di dualità. Com’è possibile presentare due versioni così inconciliabili di se stesso nel corso di un anno solare? Qual è il segreto di una metamorfosi così repentina? Le due stagioni del bosniaco a cavallo del 2016 saranno anche l’una l’opposto dell’altra, ma seguono con dovizia l’ottovolante umorale che soltanto a Roma, sponda giallorossa, può dirsi di esistere. I mugugni e il calore della curva non sono semplici riflessi di quello che avviene in campo, ma elementi condizionanti. Ecco, Dzeko è stato in grado di infrangere la mistica del chiacchiericcio, quella che ti esalta e ti denigra senza appello né possibilità di revoca.
Il cambio di passo è avvenuto gradualmente, grazie ad una configurazione alternativa. Da centravanti puro, ossessionato dalla finalizzazione, Dzeko ha imparato ad allontanarsi dalla porta, in senso fisico e mentale, riciclandosi come pedina al servizio del sistema. Ha abbandonato la solitudine e abbracciato la condivisione, attraverso un set di tagli, movimenti e sponde che ne hanno restituito una nuova immagine. Ha capito quanto il proprio successo fosse legato al funzionamento della squadra, e ha iniziato a remare nella giusta direzione. Non ha vissuto più per far gol, ma alla fine è stato premiato ritrovando anche quelli. Metamorfosi allo stato puro.
4. GARETH BALE
Chiarito il trend dell’Europeo, l’exploit di alcune piccole realtà come Islanda o Galles appare più comprensibile. Per entrambe la forza del collettivo e di pochi semplici principi condivisi (la capacità di reazione anteposta alla vena propositiva in primis) hanno fatto la differenza. Ma se tra gli uomini dell’Estremo Nord il tasso tecnico medio era piuttosto carente, il Galles ha potuto fare affidamento su Gareth Bale.
La starring quality del gallese è tra le più sottostimate del panorama internazionale, eppure in termini di decisività e incidenza c’è poco da discutere. L’annata, tra le più fertili in termini di rendimento, ha raggiunto il suo apice con la semifinale in terra francese, persa poi contro il Portogallo, e con la vittoria della Champions League in maglia galacticos. Un solo uomo a rubare la scena in entrambe le occasioni, carnefice nell’una, fedele alleato nell’altra: Cristiano Ronaldo ha infranto i sogni del Galles con lo stesso carisma con cui ha regalato al Real Madrid l’undicesimo successo nell’Europa dei grandi nella serie di rigori finali contro l’Atlético. Il tutto nel giro di due mesi.
La dicotomia tra Bale e Ronaldo merita una contestualizzazione. Garreth e Cristiano sono l’uno l’opposto del l’altro nel modo di vivere e interpretare il calcio ai massimi livelli: se il primo è intento a migliorare l’ecosistema che ha intorno a sé dal basso, senza mai sovrastarlo, il secondo tende ad irradiarlo dall’alto eliminando ogni dinamica associativa. Uno è porzione, l’altro è icona, e la differenza emerge tutta in termini di risonanza mediatica. E così si fatica a comprendere di che luci brilli Gareth Bale: se della propria o di quella riflessa di un altro grande campione, che ha ben altra dimestichezza con il culto dell’immagine. Un eroe che agisce senza grandi proclami è pur sempre un eroe. Magari di nicchia, ma è doveroso riconoscergli i giusti tributi.
3. ALEXIS SÁNCHEZ
Chissà se tra i nuvolosi pensieri estivi di Leo Messi non sia apparsa anche la squadrata sagoma di Alexis Sánchez a suggerirne l’abbandono della Selección. Il successo nella Copa América Centenario del Cile, dolce bis dell’edizione 2015, ha rotto gli equilibri in Sudamerica: ha indotto la Pulce a vacillare, salvo poi ritornare sui suoi passi, e ha costretto il Brasile a interrogarsi sulla qualità di un movimento in evidenti difficoltà.
Il nativo di Tocopilla ha posto fine ad un duopolio ridondante, camminando sul velluto mentre i giganti a fianco cadevano. Una vittoria ai rigori, esattamente come nel 2015 (in quell’occasione segnò addirittura il penalty decisivo), e la nomina di miglior giocatore del torneo hanno arricchito un curriculum prestigioso in nazionale, quanto carente con l’Arsenal in Premier League, dove di titoli si fa anche fatica a parlarne. Wenger in questi anni ha provato a rigirarlo come un calzino, reinventandolo di volta in volte come esterno di centrocampo, ala, mezza punta e falso nueve: ogni versione è stata convincente ma non c’è stato verso per i Gunners di raggiungere il piano più alto. L’unica consolazione per Alexis resta l’essere entrato a gamba tesa negli incubi più terrificanti di Leo Messi. E l’aver sfidato ogni convenzione portando la coppa sulle Ande per due anni di fila. Niño Maravilla e tanti saluti.
2. SERGIO RAMOS
Non tutti conoscono Renato Cesarini, attaccante originario di Senigallia che seminò giusto qualche gol tra Argentina e Italia a cavallo delle due guerre. River Plate e Juventus le passioni più grandi, segnare all’ultimo minuto un’insolita vocazione. In molti hanno invece sentito parlare di “Zona Cesarini”, in riferimento agli istanti finali di una partita o, per metonimia, di un qualsiasi evento, anche extra-calcistico. Ecco, nel 2016 la “Zona Cesarini” è diventata anche un po’ la “Zona Sergio Ramos”.
“Quando dai il tuo nome a un pezzetto di Tempo — il quale è solo di dio, dice la Bibbia — qualcosa nella vita lo hai fatto” scriveva Alessandro Baricco. Un vizio piacevole per il difensore spagnolo, ormai habitué del gol a tempo scaduto. Tre le marcature in pieno recupero soltanto nel 2016: la prima nella finale di Supercoppa Europea del 9 agosto, le altre due appena pochi giorni fa, il 3 e il 10 dicembre contro Barcellona (pareggio salvifico nel Clásico) e Deportivo La Coruña (vittoria per 3-2). Ma anche gol pesanti in corso d’opera come quello in finale di Champions nel derby contro l’Atlético: tempismo perfetto da calcio piazzato, anche questa specialità della casa.
Simbolo del madridismo in campo e fuori, Sergio Ramos ricorderà quest’anno come uno dei migliori della sua carriera. Lui, come tanti altri in questa lista, pronto a lucidare la patina dell’eroe indiscusso di questo 2016, al netto di antipatie e obiezioni. L’avrete già intuito. E’ apparso come traccia, senza un posto fisso, perché Cristiano Ronaldo è un eroe classico, tutt’altro che inusuale. Al cui destino però si sono intrecciate le esistenze di tanti uomini valorosi.
- CLAUDIO RANIERI
L’allenatore italiano più british che ci sia, ma che in fin dei conti di british ha ben poco. Distinto e affabile sì, ma anche terribilmente sfacciato e canzonatorio. L’irriverenza di Sir Claudio nelle dissacranti conferenze stampa è la stessa con cui il suo Leicester ha scardinato la compostezza della Premier League, sul doppio binario del campo e dell’immaginario collettivo. L’atmosfera della favola più rappresentativa del 2016 è un un’ubriacatura leggera, ma non molesta, una piacevole alterazione dei sensi aggirando i postumi della sbornia. Un bicchiere di buon vino italiano alle cinque del pomeriggio mentre tutti gli altri sorseggiano del tè.
Ranieri ha inventato uno slang che si è legato al successo, rafforzandolo e rendendolo ancora più iconico: si va dal ‘dilly-ding dilly-dong’, che è onomatopea consegnata alla storia, alle svariate interpretazioni di ‘unbelievable’. Un modo di forzare i paradigmi di una cultura austera, offrendo nuovi colori di fronte al buio dell’approccio ad una lingua diversa. Per Ranieri ‘unbelievable’ è stato un gol straordinario, un calendario difficile, il caldo supporto dei tifosi. Un solo termine, infinite tonalità, tutte piacevolmente stonate.
Se il Leicester è diventato un polo di attrazione emotiva con quei suoi eroi un po’ grezzi, rinnegati, che nella più canonica retorica della rivalsa hanno unito le forze per espiare i propri peccati, le peripezie linguistiche sono state il contorno di una cavalcata trionfale, la voce fuori campo che ha mostrato senza raccontare. Mentre l’atmosfera surreale intorno a sé prendeva forma da sola, come per magia, Ranieri è stato un po’ Omero, compositore e aedo del suo stesso poema.