Islanda, Galles, Italia e Polonia. Il fascino delle underdog, di chi alla ragione ha anteposto il cuore.
“Underdog is the person or team considered to be the weakest and the least likely to win”. (Cambridge dictionary).
“Underdog è la persona o la squadra considerata più debole e con le minori possibilità di vittoria”.
Guardando il tabellone di Euro 2016 salta all’occhio un ché di ridondante, come se il leitmotiv di ogni incontro fosse sempre lo stesso: c’è una favorita, chiamata meccanicamente a trasformare una previsione in realtà, e c’è una sfavorita che lotta per sovvertire la logica. Sia chiaro, ogni contesa ha il suo beniamino e il suo underdog, ma il palinsesto che ha preso vita in questi giorni esprime una costante fin troppo evidente. I quarti di finale sono la scena di una scazzottata dialettica (chiedo scusa al mio professore di filosofia) tra reazione e rivoluzione, tra chi protegge lo status quo e chi è pronto a sradicare ogni pregiudizio, nel più assurdo elogio alla follia. Questo incontestabile sbilanciamento di forze aderisce perfettamente all’archetipo del duello Davide contro Golia: e noi vi spieghiamo perché, per l’ennesima volta, quattro piccoli uomini potrebbero avere la meglio sui giganti.
Nota bene: Se per Islanda, Galles e Polonia la premessa calza a pennello, l’Italia rientra nella categoria soltanto per recenti contingenze storiche. A dispetto di una tradizione ben più solida rispetto alle colleghe, la banda di Conte ha assunto fin dall’inizio della competizione la nomea di sfavorita. Che si faccia pure avanti chi avrebbe scommesso anche soltanto un centesimo su una cavalcata così sontuosa. Da fervidi contestatori a tifosi spassionati della “peggiore Italia di sempre”, diamo pure un calcio all’ipocrisia e godiamoci questo quarto di finale. A Berlino ci danno già per spacciati, noi ci limitiamo a sognare. In silenzio, in puro stile underdog. Quasi superfluo sottolinearlo.
Mito, teatro e calcio
Così come Achille era Pel-ide (figlio di Peleo), ogni giocatore dell’Islanda, ancor prima che sé stesso, è figlio di qualcuno. La desinenza –son che campeggia su tutti i nomi degli isolani introduce un patronimico che si perde nel tempo, come un rimando ad un passato indefinito. Il cammino fin qui tracciato dai guerrieri del nord ricalca quasi i canoni di un ciclo mitologico impiantato in epoca contemporanea, che sembra non temere la modernità. Anzi che si serve della modernità, e di tutte le sue sovrastrutture, per varcare i confini dell’isola. L’attitudine mitologica di un’intera nazione si alimenta delle gesta della sua selezione calcistica e il mondo intero ne fa da testimone. Roba da teatro, altro che da stadio.
Il potere catartico legato ad un pallone non è da sottovalutare. Specialmente nel caso delle underdog, per le quali la più tipica funzione teatrale, declinata al calcio, assume una portata devastante. L’inter-relazione tra attore e spettatore genera uno scambio di fluidi emotivi, nel segno di un’influenza reciproca. L’empatia tra tifosi e squadra crea una connessione assai simile. Se nell’estasi degli spalti risiede la funzione catartica, nelle trame di gioco trasuda un sentimento, percepito come necessità, di sublimazione. La squadra si immedesima nella platea, subordinando la propria performance agli umori di un popolo che rintraccia nel calcio una proposta di riscatto. La sovrapposizione d’identità tra calciatore e tifoso (almeno nei 90 minuti) ne è la conseguenza più logica: chi guarda si ritrova fisicamente provato, chi gioca emotivamente scosso. Lo slittamento della percezione si lega ad un principio incontestabile: deludere l’altro significa deludere sé stessi.
Al termine di ogni partita in cui l’Islanda ha trionfato, contro i favori del pronostico, la selezione dell’estremo Nord si è ricongiunta ai suoi sostenitori in una sorta di haka vulcanica: ventitré anime che si prostrano davanti ad un muro azzurro, con le braccia alzate a sfiorare il cielo, e le mani che battono all’unisono in una sinfonia tribale. Un tributo rituale che suggella una magia inspiegabile, sorda alle orecchie della ragione. Per le underdog la componente emotiva è l’arma più importante per sperare di scardinare la logica. La passione (nel suo contesto etimologico di propensione alla sofferenza) è l’ingrediente segreto che alimenta un sogno, e a quel punto il calcio diventa soltanto un pretesto. E’ tutta una questione di sangue, sudore e lacrime. Un po’ come in una battaglia, un po’ come negli sviluppi ancestrali di un mito. Una pulsione irrazionale dirompente, un desiderio primitivo che porta ad imporsi su ciò che per Natura è superiore. L’Adidas ci ha tirato su un marchio: impossible is nothing.
Fortuna ed equilibrio
E’ inutile negarlo, nella vita così come nel calcio ci vuole cuore, ma anche qualcos’altro. Si tratta sempre di una parte anatomica e l’iniziale è la stessa. Cambia giusto la funzione. Il tabellone di Euro 2016 certifica non soltanto l’asimmetria dei quattro incontri, ma anche un’innegabile squilibrio di forze tra il suo lato destro e il suo lato sinistro. Da una parte Francia, Germania, Spagna e Inghilterra (le ultime cacciate fuori proprio da due delle nostre underdog),erano e restano le favorite alla vittoria finale dell’Europeo; dall’altra, tra le tante, Galles, Irlanda del Nord, Ungheria, Polonia, non erano e non sono di certo le squadre più quotate ad arrivare fino in fondo. La nuova formula suffragata dalla Fifa che prevede l’allargamento a 24 squadre (un ringraziamento a Platini è d’obbligo), ha determinato l’eliminazione di un terzo delle selezioni e un rimescolamento dei restanti due terzi per la fase finale. La fase a gironi più che dettare le gerarchie è servita come parentesi interlocutoria e ha consentito alle squadre di conoscersi, studiarsi senza farsi troppo del male. Un sentiero che uccide la competizione in favore dell’entertainment: più partite, più pubblicità, maggiori introiti. Un’equazione quasi banale, ma da non prendere sottogamba.
La questione è che, come è normale che accada, le partite dei gironi hanno tracciato uno scenario tutt’altro che coerente rispetto alle previsioni della vigilia. Il campo ha sovvertito qualsiasi certezza, livellando il divario tra le teste di serie e le squadre di fascia medio-bassa. Il gioco non è stato lo specchio fedele dei canoni e delle classificazioni che ne stanno alla base, e il ranking Fifa è stato abbondantemente sconfessato. Il risultato è un palinsesto asimmetrico, privo di ragionevole equilibrio, ma che aiuta non poco le squadre che si sono ritrovate, in un’alchimia improbabile di merito e fortuna, nella porzione mancina del tabellone. Il Galles affronterà il Belgio, una formazione altamente tecnica, ma che ha mostrato tutte le sue lacune derivanti dalla fragilità di un’anima che Wilmots non è stato capace di plasmare. Discorso analogo per la Polonia, chiamata all’impresa contro un Portogallo che si affida in tutto e per tutto elle estemporanee fiammate dei suoi talenti. Per Italia e Islanda, incastrate nel lato destro del tabellone, gli accoppiamenti sono sulla carta proibitivi: Germania e Francia sono dei mostri sacri, ma nemmeno loro, nell’ottica di un livellamento delle differenze, hanno ostentato una supremazia incontrastata. L’ascesa delle underdog si spiega anche così. Chi doveva dominare ha dato prova della vulnerabilità, mentre chi appariva destinato a soccombere non si è arreso al pregiudizio, finendo per sovvertire la consuetudine. I giganti sono più piccoli di quanto si possa credere. E gli uomini sono più forti di quanto si tenda a immaginare. Un compattamento che riduce gli estremi, ed ecco che l’equilibrio, all’apparenza assente, è servito.
L’insostenibile leggerezza di un Sistema
Il tratto distintivo dell’underdog è la capacità di sfruttare a proprio favore i limiti di cui dispone. La premessa dell’impresa risiede nella capacità di certificare le debolezze per poi trascenderle, con una soluzione non per forza geniale, ma ponderata nella sua struttura. Se Davide pensasse di poter sconfiggere Golia in un confronto alla pari sarebbe uno stolto, non un eroe. L’elogio alla follia va bene, ma non porta dalla nessuna parte senza la presenza della misura. Perché qualcosa funzioni è necessario il compromesso tra forma e sostanza, ogni viscerale spinta creativa deve avere un canale per non dissiparsi. Nel calcio, il contenitore che vivifica la forza bruta, educandola rispettosamente, è la creazione di un Sistema.
Liberare energia senza controllo, certe volte, significa autodistruggersi, o peggio ancora, equivale a star fermi. Spagna e Inghilterra ne sono la prova. La selezione inglese rientrava tra le favorite all’alba dell’Europeo per l’invidiabile abbondanza di talenti. Nonostante l’eliminazione, il tasso tecnico della formazione britannica non si discute, tra l’altro ben distribuito su ogni reparto del campo, in un asse potenzialmente micidiale. L’insuccesso dell’Inghilterra risiede nell’assenza di un’organizzazione tattica, di un progetto che unisca e accordi fra loro le singole pedine. Roy Hodgson è stato messo alla gogna per non aver plasmato il materiale di cui disponeva, schierando una squadra competitiva secondo la logica, ma priva di un’identità nella sostanza. La qualità del singolo non sfocia automaticamente nella qualità del collettivo senza un meccanismo volto all’interazione. Perché se non c’è integrazione la squadra resta vittima delle differenze. Liberare energia senza una forma, in questo caso, significa votarsi all’autodistruzione e non a caso l’Inghilterra si è schiantata contro una parete di ghiaccio.
Vicente del Bosque, a differenza di Roy Hogdson, ha dato alla sua squadra una specifica impronta. La stessa specifica impronta da otto anni a questa parte, vincendo tutto ma cambiando poco e niente. Vien da sé che nonostante la componente tecnica sia ancora decisamente sopra la media, i principali tasselli della Roja si siano ritrovati a fare i conti con il trascorrere delle primavere. Il Sistema della Spagna, basato sulla narcosi del gioco tramite un ridondante possesso palla e su verticalizzazioni improvvise, presuppone piena e incondizionata integrazione tra i compagni e un’elevata competenza nel palleggio. L’errore di del Bosque è stato credere che questo Sistema potesse funzionare ad libitum, indipendentemente dalla condizione delle pedine o dalla sussistenza di un adeguato ricambio generazionale. Del Bosque ha privilegiato il Sistema, anteponendolo ai suoi stessi interpreti, nell’esaltazione della forma come elemento primario. Se i britannici non hanno un sistema, gli spagnoli ne hanno utilizzato uno aprioristicamente, non curandosi se chi gioca sia in grado di alimentarlo o meno. Non possedere una guida o affidarsi ad un credo in maniera incondizionata, senza valutazione critica, significa perdersi. E la Spagna si è pietrificata quando ha constatato l’obsolescenza della sua fede.
Tutte le underdog hanno un Sistema che si adatta ai giocatori a disposizione, esaltandone le virtù e mascherandone i difetti. La consapevolezza dei limiti delle proprie selezioni ha spinto Conte, Lagerbäck, Nawałka e Coleman a creare una struttura che tenga conto delle variabili, riducendo al minimo i fattori di rischio. I giocatori non sono stati inseriti in un apparato preconfezionato e preesistente, ma è stato l’apparato a permearsi sulle qualità dei giocatori. Una sapiente regia e l’abnegazione operaia degli interpreti sono ad oggi la chiave del successo. Il messaggio insito nel calcio è che l’organizzazione trionfa sempre sull’aritmetica sommatoria di talenti. Per usare le categorie di Sarte, Inghilterra e Spagna sono state più simili ad una “serie”, un’addizione atomistica di individui, priva di una relazione funzionante (alla stregua dei passeggeri di un autobus). Le modeste underdog hanno superato l’atomismo per dar vita ad un “gruppo”, in un movimento di costante integrazione, che sopprime la dispersione e assume una consapevolezza autonoma.
Sofferenza e rivalsa
Chi è più piccolo è destinato a soffrire. Il mondo è crudele e non perde occasione per ricordarci che chi è più forte ha quasi sempre la meglio. In natura, nelle relazioni sociali e anche nel calcio. Ma la retorica della rivalsa, diciamocelo pure, è l’antidoto più potente al male insito nella logica. Il senso di inadeguatezza sembra affievolirsi al cospetto del presagio di un’impresa. Perché vedere i dragoni britannici domare un fuoco che ha sempre intimorito i cugini più grandi e famosi, sarebbe incantevole. Perché sognare insieme ad un isola fatta di fuoco e di ghiaccio, ci fa tornare bambini. Perché sostenere una timida realtà dell’est che arriva al piano più alto, con una ascesa lenta e silenziosa, ci porta a consacrare l’umiltà come un valore inestimabile. E perché battere i crucchi, rigorosamente da underdog, sarebbe ancora una volta bellissimo. L’immagine del riscatto sembra quasi squarciare il rigore di ciò che è necessario, e che secondo ragione non può essere scardinato.
Per sovvertire il tradizionale corso degli eventi è necessaria una buona dose di sofferenza. Non un’istantanea esperienza della sofferenza, ma l’appartenenza, per natura alla sofferenza. Tutte le underdog la conoscono, la considerano parte della propria storia, e caposaldo del proprio patrimonio genetico. Patiscono una cronicizzazione della sofferenza, un’abitudine al dolore, per il fatto di essere considerate perdenti ancor prima di cominciare. Solo allora è possibile accedere alla dimensione del riscatto. Desiderarlo ardentemente, per puro spirito di vendetta. Assecondare il ciclo del mondo scambiandone i tasselli, invertendo la logica. Che per una volta chi è più debole possa riuscire a domare chi, secondo le regole, è abituato a dominare.
Noi siamo l’Italia, ma siamo anche un po’ Galles, Polonia e Islanda perché amiamo immedesimarci nelle favole. Siamo un popolo di detrattori e sognatori. Viviamo nella contraddizione, e respiriamo un profondo sentimento di rivalsa.