Il recente suicidio di Raffaello Bucci e l’omicidio del nigeriano Emmanuel hanno nuovamente attirato l’attenzione sul fenomeno del tifo organizzato in Italia, generando un dibattito che ha incuriosito anche noi, e ci ha portato ad informarci e a provare a fare chiarezza su alcuni punti fondamentali, anche attraverso il confronto con persone molto vicine al tifo organizzato, che in passato ne hanno fatto parte dall’interno per lungo tempo.
Come ogni fenomeno sociale del Bel Paese, il panorama del tifo organizzato si presenta frammentato e le principali differenze riguardano sia la composizione più o meno numerosa (quasi mai omogenea per estrazione sociale), sia il modo di seguire la squadra lungo la penisola, e non sempre ciò dipende dal blasone del club sostenuto. In questo percorso abbiamo intervistato Matteo Falcone, direttore di Sportpeople.net, che per anni ha frequentato il gruppo ultras del suo paese di origine, prima di trasferirsi e studiare il fenomeno da appassionato esterno.
Il tema della violenza In molti articoli e servizi televisivi è stato precisato che l’assassino del nigeriano era un ultrà tifoso della Fermana. Ci si è allora interrogati sull’opportunità di evidenziare la partecipazione dell’omicida alla vita del tifo organizzato. La risposta non può essere assoluta: descrivere l’accaduto in tutti i suoi risvolti oltre che dovere di cronaca è un sacrosanto diritto del giornalista. La questione diventa più spinosa quando si porta l’attenzione su un tratto dell’assassino come se fosse preponderante nella sua descrizione, quasi a voler trovare in questo la spiegazione della condotta criminosa. Obiettivamente, che lo vogliano o no, è difficile aggregarsi in un gruppo riconosciuto dall’esterno senza fare politica, anche solo riunendosi, discutendo, e tenendo determinati comportamenti: anche tra gli ultras ci sono ancora gruppi che conservano retaggi politici, nonostante la tendenza generale sia quella di prenderne le distanze. Detto ciò, non si sono mai viste né sentite fino ad oggi aggressioni fisiche da parte di ultras in quanto tali nei confronti di stranieri, né nei confronti di chiunque non sia ultras o non rappresenti direttamente il braccio armato dello stato. “La violenza non è estranea al mondo ultras – spiega Matteo Falcone – ma è sempre stata uno strumento di prevalenza e di affermazione di un gruppo nei confronti dell’altro ed è un fenomeno spontaneo, che nasce e in teoria dovrebbe rimanere priva di armi da taglio o da fuoco. Fino agli anni ottanta le tifoserie non usavano seguire le squadre in trasferta in massa e con continuità come presero a farlo negli anni immediatamente seguenti, e gli stadi non presentavano il settore ospiti isolato da divisori come al giorno d’oggi: quando i gruppi più sanguigni di squadre avversarie si mescolavano bastava poco per passare alle maniere forti. La violenza nei confronti delle forze dell’ordine è emersa in seguito, anche a causa della presenza sempre più massiccia di militari all’interno degli stadi e dell’irrigidimento della regolamentazione: il tutto ha accentuato il contrasto tra tutori della legge e tifosi organizzati, creando in questi ultimi una sensazione di oppressione e di rancore nei confronti dello Stato.” Una testimonianza che non rinnega l’animo esuberante del mondo ultras, fino a sfociare nell’illegalità con l’uso della forza, seppure regolata da una serie di norme spontanee interne. A questo punto si pone il problema di come contrastare questo aspetto illegale del tifo organizzato.
Fuori controllo
Resosi conto del problema, sia in termini di legalità che di ordine pubblico, il legislatore è intervenuto negli ultimi 25 anni con una serie di disposizioni volte ad arginarlo. I provvedimenti più noti sono l’introduzione del biglietto nominativo, la tessera del tifoso, il D.A.SPO., e l’obbligo di richiedere l’autorizzazione della Questura per introdurre ogni striscione all’interno dello stadio. Ecco la posizione del direttore di Sportpeople.net: “Il problema è che la regolamentazione degli ultimi anni ha portato ad una grande frammentazione del fenomeno ultras. Il controllo pressante su ogni singolo striscione e la burocrazia imposta per seguire la propria squadra in trasferta hanno portato allo scioglimento o alla decimazione di gruppi storici, che in qualche modo avevano una certa capacità di mantenere equilibrio sul comportamento delle grandi masse provenienti dalle fasce sottoproletarie della popolazione. Le misure dell’ultimo decennio, come la tessera del tifoso, hanno svilito la vita di gruppo del tifo organizzato, che disgregandosi ha prodotto da un lato frange fuori controllo, e dall’altro ha inasprito il sentimento di contrasto tra ultras e stato, ma in questo modo non si è fatto che aumentare la violenza che è più difficile da controllare sia dall’interno del gruppo che dall’esterno ovvero da parte delle forze dell’ordine. Proprio questa frammentazione ha causato l’assenza di regole che una volta erano certe e prevedibili da parte del mondo ultras, come l’indipendenza da ogni interesse economico e da ogni rapporto di dipendenza dalle società”.
Emblematico da questo punto di vista è il caso del suicidio dell’ex capo ultrà dei Drughi della Juventus, Bucci, che forse non ha saputo fronteggiare il fatto di essersi trovato in mezzo ai fuochi del club più ricco in Italia e di gruppi di tifosi in questi ultimi tempi balzati agli onori delle cronache per le presunte infiltrazioni ‘ndranghetiste. “L’ultras nasce come indipendente dalla società e dagli interessi economici – continua Falcone – ha sempre voluto sentirsi libero di supportare la squadra o di contestarla a seconda delle proprie sensazioni senza rispondere ad alcun interesse terzo. Molti puristi oggi sono diventati “cani sciolti”, slegati dai gruppi principali della propria squadra perchè ritenuti non fedeli ai principi originari. Anche per questo oggi è difficile parlare di ultras nel senso più originario del termine: in passato l’estrazione sociale era omogenea, ovvero sottoproletaria, mentre oggi è mista, non è più un fenomeno spontaneo a causa delle spinte esterne che vorrebbero controllarlo ma è costruito introno ad interessi che non c’entrano nulla con la nascita del tifo organizzato”.
Modelli a confronto
Le vie di uscita dalla situazione di caos appena descritta esistono, e sono state praticate sia da alcuni gruppi ultras che hanno deciso di tesserarsi e non hanno abbandonato la partecipazione alle trasferte della propria squadra, mantenendo vivo lo spirito di gruppo e la vicinanza ai propri beniamini, sia da parte dello Stato, quello tedesco, che si è trovato a dover fronteggiare un fenomeno di emulazione da parte delle grandi curve germaniche ispiratesi al modello italiano degli anni ottanta, e che ha tentato di studiare e di accogliere per quanto possibile le istanze provenienti dal basso, mediando tra le esigenze di ordine pubblico e le istanze avanzate dagli stessi tifosi nella ricerca della soluzione alle criticità presentate dal disordine pubblico creato da masse più o meno violente in movimento lungo il territorio interno.
Il problema sembra in ogni caso risiedere nelle opposte rigidità, quella dei duri e puri che non scendono a compromessi e scelgono la solitudine abbandonando la vita di gruppo pur di non cedere al controllo di uno Stato che si è trovato impreparato a fronteggiare un fenomeno di tale potenza, e come spesso accade in questi casi ha puntato dritto all’eliminazione del problema più evidente, peccando in approfondimento e in lungimiranza, dimenticandosi di studiare le basi socio-culturali di un fenomeno che se affrontato nel modo giusto avrebbe potuto garantire più movimento di uomini ma anche di denaro (pulito), con più redditi da parte dell’impresa calcio e di tutto quello che la circonda, dai biglietti per le partite alle consumazioni nei bar, senza dimenticare che uno dei fattori che ha reso spettacolare e allettante la Premier League negli ultimi anni è stato proprio la vicinanza tra il folto pubblico che riempie gli stadi e i calciatori in azione durante le partite di campionato.