La fine di una anno od il principio di quello nuovo sono sempre occasioni utili per tirare un po’ le somme e cercare di mettere in fila il meglio ed il peggio dei 365 giorni precedenti. E così anche noi di Tabser-Talking about soccer non ci siamo voluti sottrarre a questo esercizio. Abbiamo deciso di stilare la nostra personalissima lista dei top e dei flop del 2019 e lo abbiamo fatto scegliendo sette categorie chiedendo poi ad ognuna delle nostre penne di esprimere il proprio giudizio in merito.
Ne è uscita fuori veramente una bella miscellanea con scelte in alcuni casi attese ed in altri casi veramente sorprendenti (chi ci segue conosce ormai l’estrosità ed il gusto per i particolari del nostro Matteo Albanese). Ma non vogliamo togliere il gusto della scoperta, per cui, vi lasciamo alla lettura.
La squadra del 2019
Matteo Albanese: PAOK Salonicco
Immaginatevi di attendere 34 anni per vincere un campionato, il terzo della storia dopo quelli festeggiati nel 1976 e nel 1985. Ebbene, la festa organizzata a Salonicco per il trionfo del PAOK aveva ogni attesa possibile da sfatare. Il terzo campione differente negli ultimi tre anni di Super League greca (Olympiakos nel 2017, AEK nel 2018) doveva essere l’Aquila Bicefala del presidente Savvidis, noto per aver estratto la pistola dal fodero l’anno prima. Così fu: Razvan Lucescu, assieme allo staff italiano (Longo, Bacci, Spatafora), riuscì in un’impresa. Ventisei vittorie su trenta, sessantasei reti realizzate e quattordici subite. Domenica 30 settembre 2018 il PAOK espugnò il Karaiskakis de Il Pireo, grazie a un autogol di Jagoš Vuković. Era la quinta giornata, i bianconeri presero la vetta di Grecia e non l’avrebbero più mollata. Alla Torre Bianca di Salonicco, fu festa grande. Comprensibilmente. In estate, poi, salutato Lucescu e dato il benvenuto ad Abel Ferreira, è cambiato poco: 12 vittorie su 16, testa del campionato a +2 sull’Olympiakos. In totale, 51 gare senza conoscere sconfitta.
Filippo D’Angelo: Liverpool
I novantasette punti raccolti in Premier League, nonostante il secondo posto alle spalle del City, sono la prima risposta ad un fatto scontato: il Liverpool è una macchina da guerra, calcisticamente parlando. Il percorso in Champions League ha dimostrato la grandissima superiorità degli uomini di Klopp, che hanno prima sbattuto fuori dalla competizione il Barça con una rimonta sensazionale e poi, in una delle finali meno entusiasmanti degli ultimi anni, sfruttato le poche occasioni capitate contro il Tottenham, laureandosi campione d’Europa. In estate il derby vinto in Supercoppa Europea contro il Chelsea ha dato continuità ad una squadra affamata di trofei, che qualche giorno fa ha anche alzato un trofeo che mancava ancora nella bacheca di Anfield: il Mondiale per Club. E la Premier al momento può aspettare, ma fra qualche mese, di questo passo, arriverà.
Simone Rabuffetti: Liverpool
Ha vinto tutto, che devo ancora dire? Dove non ha conquistato, ha fatto comunque la storia. Lo scudetto è come se fosse stato portato a cosa, solo un Manchester City sovra umano glielo ha impedito. Oggi è anche la squadra più forte del mondo, negli anni ha avuto una positiva continuità europea. Che dire: Liverpool e 2019, simbiosi perfetta.
Marco Aurelio Stefanini: Ajax
Ce ne sarebbero tante ma dico l’Ajax. Le trasferte al Bernabeu, allo Juventus ed al Tottenham Stadium parlano da sé. Dopo aver riportato l’Eredivisie a casa dopo quattro anni, una semifinale nella massima competizione europea che mancava da circa un ventennio, in cui gran parte dei giocatori in campo oggi era in fasce o nemmeno concepito. Senza replicare i soliti discorsi sui fatturati e sul FPF, vale la pena pensare che la via iniziata dal Monaco di Mbappé e poi proseguita dalla Roma (e appunto Ajax)possa essere una costante per ridare spolvero alla massima competizione europea, in barba a chi dice che sia un affare a quattro squadre. Che poi okay, magari è anche vero, ma la sostanza cambia di volta in volta.
Giorgio Catani: Liverpool
Scelta scontata, lo ammetto; ma non vedo alternative. I Reds hanno avuto innanzitutto il merito di sapersi rialzare dalla batosta di Kiev. Poi hanno avuto il non secondario merito di sapersi ripetere raggiungendo nuovamente ad un anno di distanza la finale di Champions League, per altro regalandoci una pagina di storia come l’epica rimonta ai danni del Barça, e sollevando stavolta al cielo di Madrid l’ambito trofeo. Il tutto senza per altro trascurare la corsa in campionato dove il Liverpool ha chiuso ad un’incollatura dal City di Guardiola. Ecco, se il 2019 in Premier League è stato l’anno del City, in Europa è stato invece l’anno del Liverpool e sappiamo che generalmente la vittoria della Champions League offusca i trofei in patria. Tuttavia ritengo anche che la ciliegina sulla torta per tramandare definitivamente ai posteri questo Liverpool come una delle squadre più vincenti e rivoluzionarie della storia sia proprio la vittoria della Premier, affermazione che manca da trenta anni. E direi che stando a questo primo scorcio di campionato 2019-2020 il tabù potrebbe anche essere spezzato.
L’allenatore del 2019
Matteo Albanese: Jorge Jesus
Jorge Jesus perse due Europa League consecutive: il 15 maggio 2013 ad Amsterdam (Ivanović al 93’), il 14 maggio 2014 allo Juventus Stadium di Torino, contro il Siviglia Emery. Sbeffeggiato dalla maledizione di Béla Guttmann risalente al 1962 («Da qui a cento anni il Benfica senza di me non vincerà mai una coppa europea») e forse pure alcuni errori arbitrali del tedesco Felix Brych, reo di non aver concesso un rigore ai portoghesi, Jorge Jesus accumulò un debito con la sorte ma andò incontro a feroci insulti quando, nell’estate 2015, passò allo Sporting e fu conseguentemente minacciato di morte dai suoi ex tifosi. Come se tre campionati, una Coppa di Portogallo, cinque Coppe di Lega e una Supercoppa fossero dimenticate, Jesus fu beffato pure dal fatto che la sua avventura ai Leões fu tutt’altro che positiva: i rapporti col presidente Bruno de Carvalho si deteriorarono, Jesus si concesse l’esilio all’Al Hilal, si dimise nel gennaio 2019 per disaccordi con la società e il 1° giugno 2019 accettò la corte del Flamengo. Con Diego Alves, Rafinha, Filipe Luís, Gerson, de Arrascaeta, Diego, Gabigol e Bruno Henrique e Vitinho, e con 90 punti in 38 gare, vinse il campionato. Il 23 novembre 2019, poi, a Lima, batté il River Plate diventando il secondo tecnico europeo ad aver vinto la Libertadores. Batté i campioni in carica nel modo più assurdo possibile: doppietta di Gabigol tra 89’ e 92’.
Filippo D’Angelo: Gian Piero Gasperini
L’Atalanta ha vissuto la stagione più memorabile della propria storia. Il terzo posto in campionato ha svelato le qualità di una squadra moderna, frizzante, al passo coi tempi, che per la prima volta ha staccato il pass per la Champions. Una rosa non di campioni magari, con pochi fuoriclasse magari, ma con uno spirito che poche realtà oggi possono vantare. I meriti sì vanno al gruppo, alla squadra, ma il tappeto rosso è tutto per Gianpiero Gasperini. L’uomo del cambiamento, l’uomo che ha scritto una pagina di storia recente del nostro calcio, vincendo la sua scommessa personale: quella di consacrarsi come uno degli allenatori più influenti degli ultimi anni. Pazienza, passione e bellezza, le tre regole di Gasp, la ricetta perfetta per raccogliere successi e soddisfazione. E anche la cittadinanza onoraria di Bergamo. E fa niente se la Coppa Italia è andata alla Lazio, il meglio deve ancora venire per la Dea e, specialmente, per il suo allenatore.
Simone Rabuffetti: Massimiliano Allegri
Cinque mesi su una panchina, 7 in tribuna o sul divano. In così poco tempo di attività nel 2019 ha fatto intravedere molti spunti. Innanzitutto da quando le strade con la Juventus si sono separate. Da quel giorno si è capito quanto la sua concretezza e l’interpretazione di alcune partite fossero uniche solo a lui. Quanti 1-0. Che rimonta contro l’Atletico Madrid dopo essere stato “ucciso” mediaticamente per due settimane. Quante lotte sul “bel gioco” e discorsi annessi. Ha vinto l’ottavo scudetto consecutivo, il suo quinto alle guida dei bianconeri. Ha dato un’idea e un’ossatura alla squadra che oggi si ritrova prima in classifica grazie a questa preziosa eredità. Ci vuole molta calma, il calcio è una scienza semplice. Siamo noi a complicarla. Lui no e lo ha sempre detto: ecco perché di diritto non può che essere uno degli sportivi dell’anno.
Marco Aurelio Stefanini: Jurgen Klopp
Sarà banale, ma il mio voto non potrebbe che andare a Klopp. L’eterno secondo, un po’ hipster, ha ribaltato le carte in tavola. E forse sta mandando in pensione qualcun altro…
Giorgio Catani: Mauricio Pochettino e Jorge Jesus
Vado controcorrente e ne indico due; uno per semestre. Il primo è Pochettino che ha condotto il Tottenham in finale di Champions League facendo degli Spurs la squadra meno inglese della Premier League (anche se poi ha pagato con l’esonero un avvio di stagione non proprio brillante). Il secondo, Jorge Jesus, ci ha regalato una delle finali di Libertadores più pazze della storia, ha rigenerato Gabigol e ha dato del filo da torcere al Liverpool nella finale del Mondiale per club. Insomma, entrambi a modo loro ci hanno fatto divertire.
La squadra rivelazione del 2019
Matteo Albanese: Benfica
Non ha combinato nulla di speciale il Benfica, in questo 2019, a parte alcune cosette. Il 6 gennaio s’insediava all’ Estádio da Luz Bruno Lage, per rimpiazzare Rui Vitoria. Il 10 febbraio, il Benfica vinceva 10-0 sul Nacional e Pizzi, alias l’acquisto più caro nella storia del club benfiquista, dispensava quattro assists. Nello stesso mese, un 2-4 all’Alvalade sullo Sporting sanciva l’apogeo dell’era Lage e il decollo del rampante João Félix. Il 18 maggio, con un 4-1 sul Santa Clara – squadra che curiosamente ha uno stemma molto simile a quello del Benfica – le Águias festeggiavano il 34° campionato. La doppietta di Seferovic aveva portato il computo delle reti a quota 103, la festa a tema Reconquista divampava e lo svizzero toccava 23 reti su 29 partite, il che voleva dire capocannoniere di Liga NOS. Da festeggiare pure il ritiro di Jonas, che comunque aveva fatto in tempo, alla 32° giornata – contro il Portimonense – a realizzare il suo 300° gol professionistico in carriera. Ceduto João Félix a giugno all’Atlético Madrid per 126 milioni, a luglio il Benfica ha vinto l’International Champions Cup, ad agosto la sua settima Supertaça Cândido de Oliveira. A settembre è ricominciato l’anno, con 13 vittorie in 14 partite, sei giovani lanciati (Zlobin, Tomás Tavares, Nuno Tavares, Ferro, Florentino e David Tavares) e una qualificazione all’Europa League ottenuta in modo assurdo: tre ko nelle prime quattro gare, poi pirotecnico 2-2 a Lipsia e netto 3-0 in casa sullo Zenit. Considerata la rimonta subita ad aprile dall’Eintracht (4-2 a Lisbona, 2-0 in Germania), i biancorossi si sono certamente divertiti.
Filippo D’Angelo: Ajax
Chissà per quante notti la Juventus avrà ripensato al colpo di testa letale di De Ligt, quel ragazzino biondo che ha distrutto i sogni europei della Vecchia Signora nella passata stagione e che adesso difende la difesa bianconera. Il baby capitano che, insieme a suo compare De Jong, e ai vari Tadic, Van De Beek, Ziyech e compagnia bella ha seminato il panico per l’Europa intera, giungendo fino alla semifinale di Champions sbarazzandosi, nel mentre, anche del Real Madrid. L’Ajax è stato battuto dal destino, l’unico avversario che poteva davvero interrompere un sogno ad occhi aperti. L’unico elemento di squilibrio in una stagione equilibratissima, una stagione quasi perfetta. E pazienza se il Tottenham ha avuto più fortuna e più cuore negli ultimi minuti della semifinale di ritorno, pazienza se il mercato estivo ha frammentato una rosa intera. Pazienza se ora si giocherà l’Europa League. Il ciclo ricomincerà, prima o poi. Speriamo il prima possibile.
Simone Rabuffetti: Atalanta
“L’Atalanta non si ripeterà, la favola finirà”. Rima rindondante, motivetto da accompagnamento. Quante volte lo abbiamo detto? Eppure i bergamaschi hanno smentito ogni pronostico. Si sono qualificati alla Champions League (hey, dilly din dilly dong) arrivando terzi in Serie A davanti a squadre blasonate come Inter, Milan, Roma e Lazio. Hanno eliminato la Juventus dalla Coppa Italia (peccato per la finale…), ma non hanno avuto paura di nessuno. La Coppa dei Campioni l’hanno giocata a San Siro, non uno stadio qualunque. Hanno sfidato le leggi di materie come matematica e fisica e si sono qualificati agli ottavi di finale della competizione, nessuno come loro. Tutto questo non è frutto del caso. I neroazzurri sono una rivelazione, ma anche una riconferma. Pasalic (non uno qualunque) e compagni saranno ricordati nella storia per sempre.
Marco Aurelio Stefanini: Atalanta
Mi associo sull’Atalanta. Ha trovato continuità e dopo la qualificazione alla fase a gironi della Champions League ha stupito tutti riuscendo a strappare un inaspettato pass per gli ottavi di finale. Settimana dopo settimana la Dea sta scrivendo pezzi di storia. E a questo punto non resta che chiedersi cosa dovremo aspettarci per il 2020.
Giorgio Catani: Atalanta
Non giriamoci troppo intorno: l’Atalanta. Ricordiamoci inoltre che nella scorsa stagione la qualificazione alla fase a gironi della Champions League è arrivata dopo un avvio thriller con l’eliminazione ai preliminari di Europa League ed una partenza balbettante in campionato dove gli orobici alla quattordicesima giornata occupavano ancora il dodicesimo posto in classifica. Il primo scorcio della stagione in corso non fa poi che rinnovare lo stupore perché nessuno dopo le prime tre partite avrebbe scommesso sull’approdo agli ottavi di finale di Champions League dei bergamaschi; come nessuno del resto avrebbe pensato che la squadra di Gasperini fosse in grado nel frattempo di tenere anche il passo del gruppo di testa in campionato.
Il giocatore rivelazione del 2019
Matteo Albanese: Erling Braut Håland
Pare che Raiola gli avesse caldamente consigliato di cambiare il cognome (da Håland a Haaland) per eliminare quel fastidioso ångström che, secondo il potente procuratore, ne avrebbe ridotto la popolarità. Di Håland s’è scritto tanto, forse troppo, come per ogni wonderkid inaspettato che puntualmente salta fuori dalla foschia da cui mai lo si sarebbe immaginato. Eccolo invece qui: potente a livello fisico come John Carew, con cui condivide l’altezza (193 cm), ma pure tecnico. Il classe 2000 di Leeds, figlio di Alf-Inge, ha messo assieme i numeri triti e ritriti: 8 reti e 1 assist in 6 gare di Champions League, 16 reti e 6 assists nelle 14 gare di Bundesliga austriaca, dato destinato ad aumentare ma in un’altra Bundesliga, quella tedesca, da dove il Borussia Dortmund – proprio sul gong del nuovo anno, il 29 dicembre – ne ha annunciato l’acquisto. Nel 2018, a ESPN, il giornalista norvegese Øyvind Godø lo definì «forte come un orso e veloce come un cavallo». Peraltro, il suo arrivo in Renania apre seri (e meravigliosi) problemi di sovraffollamento per Lucien Favre: chi tener fuori tra Reus, Thorgan Hazard, Sancho, Brandt, Alcácer, Götze, Bruun Larsen e proprio Håland?
Filippo D’Angelo: Sandro Tonali
Se il Brescia ha ritrovato la Serie A dopo quasi quindici di assenza è stato grazie anche al sensazionale apporto di Sandro Tonali, uno dei centrocampisti più completi, intelligenti ed eleganti del panorama calcistico nazionale. Il classe 2000 è stato uno dei protagonisti nella grande corsa della stagione passata, culminata nella vittoria del campionato cadetto, dimostrando qualità, classe, grinta e soprattutto personalità, anche in Serie A. Tonali, con Balotelli & Co, cercherà di salvare il suo Brescia fino all’ultima giornata. Nel frattempo si è anche goduto la convocazione in Nazionale con cui, con molta probabilità, partirà per Euro 2020. Mancini crede molto in profili come lui, uno dei punti da cui far ripartire il nostro calcio, una promessa già divenuta realtà, ad appena diciannove anni.
Simone Rabuffetti: Trent Alexander-Arnold
Impariamo a leggere e a scrivere questo nome. L’ultimo gol contro il Leicester può riassumere quello che è stato per lui il 2019. Tecnica e qualità da vendere, maturità calcistica a poco più di 20 anni sulla carta d’identità e personalità da fare scuola. Un talento futuro che è già stato donato al calcio presente. Il terzino del Liverpool è già uno dei migliori al mondo. Si sentirà parlare molto di lui.
Marco Aurelio Stefanini: Alisson
Champions League, secondo posto in Premier League che fra qualche mese potrebbe cambiare, dopo 30 anni. Copa América vinta dopo più di 10 anni. riconoscimenti su riconoscimenti. Chi altro meglio dell’ex Roma?
Giorgio Catani: Luis Alberto
Premetto che non è una scelta di parte legata esclusivamente (forse un po’ incide) alla mia fede calcistica. E’ una scelta di sostanza. Luis Alberto è un potenziale craque. Non è certo più giovanissimo ma a 27 anni ha davanti a se gli anni della maturità calcistica e se continua a confermarsi su questi livelli c’è da scommettere che difficilmente Claudio Lotito riuscirà a trattenerlo ancora a lungo a Roma. Luis Alberto sta acquisendo giornata dopo giornata sempre più sicurezza; un fatto che se legato alla freschezza mentale che finalmente sembra essersi impadronita dello spagnolo, può diventare un mix esplosivo. Anche perché la classe dell’ex Liverpool è indiscutibile. Direi che Luis Alberto sembra sempre più uno di quei giocatori che potrebbero fare le fortune del Barcellona.
La squadra delusione del 2019
Matteo Albanese: il Manchester City
Terzo in classifica a 41 punti, -14 dal Liverpool. Ma non solo: nelle prime 19 partite di Premier League, la difesa dei Citizens aveva già concesso le stesse reti (23) che aveva subito in tutto lo scorso campionato. Il mantra è ribaltato rispetto all’anno scorso, quando cioè da sabato 2 marzo quel punticino di vantaggio sul Liverpool era stato mantenuto, magari pure con affanno (vedasi il pari dei 6 maggio 2019 sul Leicester, certificato da un semi-assurdo siluro di capitan Kompany al 70’) ma saldamente. Era plausibile che, dopo due campionati vinti con 198 punti complessivi, due Carabao Cup e una FA Cup, la banda Guardiola dirigesse la sua attenzione verso un altro obiettivo (leggasi: la Coppa dalle grandi orecchie), ma non in questo modo. Per inciso: 5 sconfitte e 2 pari su 20 partite sono troppe. I tanti infortuni costituiscono una solo parziale giustificazione. Si può dire qualcosa però sul numero di gare saltate dai difensori (16 da Laporte, 3 da Stones, 4 da Mendy, 5 da Zinchenko), sulla rottura del legamento crociato di Leroy Sané e sulle necessità di amalgamare una rosa col materiale che offriva la casa. Tradotto: positivo per la crescita dei giovani come Eric García, ma non senza polemiche (le sole quattro presenze dal 1’ dello strapagato João Cancelo).
Filippo D’Angelo: Monaco
Soltanto due stagioni fa il Monaco si scornava con il Manchester City per approdare alla semifinale di Champions, si giocava la finale di Cardiff contro la Juventus, si godeva il titolo di campione di Francia alla faccia dei rivali del PSG. Adesso invece l’immagine è quella di una squadra in seria difficoltà, che ha anche rischiato il declassamento in Ligue 2 pochi mesi fa. Una squadra che non riesce più a ritrovarsi, semplicemente la delusione dell’anno sportivo.
Simone Rabuffetti: Real Madrid
C’era una volta Ancelotti e la decima. Poi l’era Zidane e il grande legame con CR7. Poi una squadra dimenticata in Europa e per assurdo seconda forza del suo campionato, ma che non fa più notizia. Real Madrid cercasi. Un appello mai più veritiero per una squadra che ha dominato in lungo e in largo la seconda metà di questo decennio. Nel 2019 ha attraversato una grande crisi di identità, caduta in basso e lontano ormai dalle grandi potenze europee.
Marco Aurelio Stefanini: Atlético Madrid
Senza scomodare i nostri lidi, dove di compagini deludenti ce ne sarebbero tante, dico l’Atlético Madrid. Dopo una stagione chiusa in pompa magna con la terza Europa League e la seguente supercoppa nel derby contro il Real Madrid, settimo trofeo dell’Era Simeone, ci si sarebbe potuto aspettare un proseguo con un trend vincente. L’effetto del nuovissimo Wanda Metropolitano funge ma non basta: 11 punti da un Barcellona sotto i 90 punti in classifica per la prima volta dopo 10 anni (prima stagione di Guardiola) un occasione decisamente mancata, complice anche un pessimo rendimento in trasferta. Champions League deludente con cocente eliminazione contro la Juventus non giocando la sfida di ritorno, dopo aver dominato l’andata. Senza scordare l’eliminazione in Coppa del Rey. L’inizio di questa stagione non sembra andare molto diversamente. Troppi pareggi e uno strappo dal primo posto che potrebbe non ricucirsi più. Per ora, l’investimento su Joao Felix non sta ripagando. C’è tempo, ci mancherebbe altro, vista l’età. Ma Morata da solo potrebbe non bastare, visto anche il lento declino di Diego Costa.
Giorgio Catani: Barcellona
Premesso che personalmente non reputo la Liga un campionato interessante ne dal punto di vista tecnico ne dal punto di vista tattico e pertanto non la ritengo una competizione sfidante come invece possono essere Premier League e (andateci piano con le offese) la Serie A, ritengo dunque che la vittoria dell’ennesimo titolo in patria non sia sufficiente. Ritengo invece sia disarmante che una squadra del calibro del Barcellona inanelli due figure barbine consecutive come quelle rimediate dai blaugrana in Champions League con la Roma due anni fa e con il Liverpool quest’anno. Se errare è umano, preservare è diabolico. E soprattutto, non è proprio tipico della grande squadra.
Il vero Pallone d’Oro 2019
Matteo Albanese: Jamie Vardy
L’apice della carriera, questo 32enne di Sheffield salito alla ribalta col titolo vinto dal Leicester nel 2016 e la storia fatta di lavoro in fabbrica e cavigliere elettroniche, l’aveva già vissuto. Proprio per questo ripetersi era più difficile: la sbornia poteva calare Vardy in un comodo pre-pensionamento. Eppure, dopo aver smaltito la sbornia del 2017 – la campagna di caccia delle Foxes in Champions League – e aver assorbito le scorie emotive in un 2018 grossomodo tranquillo (20 reti in campionato), Vardy è tornato on fire. Nell’intera scorsa stagione aveva segnato 18 volte, ora è già a quota 17 ma manca ancora tutto il girone di ritorno. Il Leicester s’è regalato uno scivolone contro il Liverpool, il che probabilmente ha messo la parola fine sulle speranze di un titolo che torni nelle Midlands, ma la vena realizzativa di Vardy resta un bel motivo di contentezza al King Power Stadium. Brendan Rodgers gli affida ancora le chiavi dell’attacco, lui produce il 40% delle reti dell’intero Leicester e – a ormai cinque anni dall’impresa di Claudio Ranieri – è l’unico, Kasper Schmeichel a parte, a giocare da titolare. E regalare magie: «Può fare la differenza anche in un torneo ultracompetitivo come la Premiers, segna sempre, sa farlo in tutti i modi ed è un esempio per i compagni». Meriterebbe un Pallone d’oro.
Filippo D’Angelo: Alisson
Il Liverpool sarà pure la squadra dell’anno ma, senza un portiere come Alisson, la questione si sarebbe complicata drasticamente. Se i gol e lo spettacolo hanno esaltato le qualità di Salah, Mané e Firmino, la responsabilità più grande è ricaduta, nei momenti più delicati e non solo, sul portiere brasiliano. Difeso da una difesa granitica, imperforabile, un giocatore che ha onorato a suon di parate, interventi fuori dal comune e clean sheet la sua squadra e la sua nazionale. Quattro trofei vinti tra Liverpool e Brasile, che ha trascinato fino alla finalissima e alla vittoria in Copa América. Una stagione indimenticabile, culminata con la vittoria del Premio Yashin. Più di così che si poteva? Forse vincere il Pallone d’oro, ma ad Alisson credo basti già così. Un supereroe tra gli esseri umani.
Simone Rabuffetti: Virgil van Dijk
Spiegateci come funziona l’assegnazione del Pallone d’Oro, per davvero. Messi è uno dei due giocatori più forti al mondo insieme e Cristiano Ronaldo, indiscutibile. Se il premio fosse assegnato per un dono innato presente in un giocatore, andrebbe di diritto alla Pulce. Se fosse aggiudicato per la costanza e la mentalità nella preparazione, allora sarebbe tutto del portoghese. Ma nel Pallone d’Oro c’è ben altro, altrimenti sarebbe inutile una giuria con votazione e premiazione. Van Dijk ha fatto parte di una squadra fenomenale che si è laureata Campione d’Europa prima e del Mondo poi. In mezzo prestazioni da talento puro, personalità e senso della posizione da grande difensore di un tempo. Il centrale è stato protagonista di una stagione pazzesca, in una Premier League conclusa al secondo posto che sarebbe valso comunque una riconoscenza ben maggiore della medaglia d’argento. La stessa che il giocatore ha conquistato proprio dietro a Messi, talentuoso ma con zero trofei stagionali all’attivo. Cosa si dovrebbe fare di più? Chiariamolo, altrimenti i Van Dijk rimarranno spettacolari solo per la nostra generazione.
Marco Aurelio Stefanini: Frenkie de Jong
Sicuramente de Jong. L’Ajax semifinalista in Champions League deve molte delle sue fortune anche a lui. Adattatosi molto velocemente anche nei meccanismi del Barcellona di Valverde, dove è andato in cambio di 75 milioni. In tempi dove il calcio cambia in maniera molto dinamica e i prezzi schizzano alle stelle, la personalità fa sempre la differenza. Lui e De Ligt, parafrasando un noto rapper italiano, erano “giovani fuoriclasse”. Oggi sembrano essere ai poli opposti, grazie anche alla evidente maggiore personalità con cui De Jong si è contraddistinto. Poi ci sarebbe anche il capitolo nazionale: dinamiche simili, risultati in assoluta discontinuità con la mediocrità mostrata dai tulipani post Brasile 2014. Non saprei con chi paragonarlo, ma mi piace pensare che è passato dall’Ajax al Barcellona esattamente come quel numero 14, ed è stato anche artefice della rinascita della nazionale olandese. Ha vestito anche il 7, che è la metà di 14 (!) e il primo gol l’ha fatto alla Germania in trasferta. Senza scordarci che 7+14 fa 21, che è il numero che ha sempre indossato fra Ajax e Barcellona. Poi non dite che non ve l’avevamo detto.
Giorgio Catani: Virgil van Dijk
Partiamo da un assunto: a mio modo di vedere il Pallone d’Oro doveva essere consegnato a Virgil van Dijk, vincitore da protagonista della Champions League con il Liverpool, o a CR7 che ha trascinato, as usual, il Portogallo in Nations League. Il riconoscimento a Leo Messi lo ritengo onestamente ingiustificato ed abbastanza politicizzato considerato che l’argentino ha portato a casa la Liga ma ha poi clamorosamente fallito in Champions (era in campo ad Anfield) e con la maglia dell’Argentina (ancora una volta). Ciò premesso, tra CR7 e van Dijk dico van Dijk. Perché se è vero che ai fini dell’assegnazione del Pallone d’Oro la Champions League ha un peso specifico non indifferente, come si fa a non assegnare il premio ad un difensore che pur avendo incrociato PSG, Napoli, Bayern Monaco, Porto, Barcellona e Tottenham non ha subito neanche un dribbling?