Come dice “Supersonic”, il documentario sulla storia del gruppo musicale degli Oasis, la band dei fratelli Gallagher era “come una Ferrari: bellissima da guardare, fantastica da guidare e pronta a perdere occasionalmente il controllo”. Un Manchester City sulla falsa riga degli Oasis. Una squadra bellissima da guardare, fantastica da guidare e, possibilmente, che sia in grado di diventare talmente perfetta da non perdere quasi mai il controllo. O almeno, di certo non nelle occasioni che contano. Questo era, per certi versi, il progetto di Khaldoon Khalifa Al Mubarak, il presidente dei Citizens. Progettare e costruire un piano solido e concreto per lanciare definitivamente il club, oltre che in Premier, nell’olimpo del calcio. E a quale migliore architetto affidare l’impresa se non a Pep Guardiola? Impossibile infatti pensare che un allenatore che a 46 anni ha vinto ben 21 trofei, di cui due Champions League, potesse fallire. Nessuno poteva infatti prevedere all’alba di un’estate fa che il 2016/2017 di Guardiola rischiasse di passare agli annali come il primo anno nella carriera da tecnico dello spagnolo che si chiude a zero tituli per dirla con una frase coniata da un portoghese che di Guardiola è stato ed è acerrimo rivale.
La sconfitta rimediata a Monaco e la precoce eliminazione dalla Champions League, vero obiettivo stagionale del City, aprono definitivamente il processo a Pep Guardiola. Perché oltre alla bruciante eliminazione dalla coppa dalle grandi orecchie c’è da dire che i Citizens stentano e non convincono neanche in patria. Una sorpresa considerato che in virtù degli oltre 200 milioni spesi in estate era auspicabile aspettarsi qualcosina di più sul piano dei risultati. E del gioco; nonostante la consapevolezza dei rischi connessi ad un cambiamento radicale di modulo e stile rispetto a quello rodato e vincente di Pellegrini.
Dopo un avvio di campionato molto promettente, le debacle negli scontri diretti con Chelsea, Tottenham, Liverpool, Everton ed anche Leicester hanno fatto suonare più di un campanello di allarme oltre che allontanare pesantemente dalla vetta i Citizens che attualmente veleggiano a -10 dal Chelsea di Antonio Conte capolista. Chi si aspettava un Manchester City all’insegna del Tiki-taka, indiscutibilmente il marchio di fabbrica di Guardiola, è rimasto deluso. Lo spagnolo fatica a trovare pilastri su cui plasmare la squadra (si parte dal 4-1-4-1 inventato il Baviera, che si trasforma in 4-2-3-1 per dare maggiore copertura) e la mancanza di giocatori di livello in un reparto cruciale come la difesa (acquistato il solo Stones per ben 55 milioni di euro, oltre al portiere Claudio Bravo in sostituzione dell’amatissimo Joe Hart, finito al Torino) sta facendo il resto. C’è un altro aspetto poi da considerare. In questa sorta di Premier League “2.0” in cui i contratti televisivi hanno arricchito ulteriormente le squadre, anche quelle di metà classifica, la competitività è decisamente alta. Forse una novità per un Guardiola abituato a campionati come Liga e Bundesliga. Andando a vedere il percorso post Barcellona del tecnico spagnolo, si solleva quanto meno un interrogativo: è il pilota o la macchina a fare la differenza?
A Pep Guardiola occorre senza dubbio riconoscere l’indiscussa capacità di dare un senso ed esaltare una squadra di fenomeni potenziali, il Barcellona, facendola diventare una macchina da guerra in grado di mietere vittime e successi per oltre un quinquennio. Ma il banco di prova più difficile, come noto, è riuscire a ripetersi al variare delle variabili. E l’esperienza di Guardiola sulla panchina del Bayern di Monaco racconta di una squadra, probabilmente la più completa e forte in circolazione, che ha vinto tutto (o quasi) tra i confini nazionali, come per altro accade spesso a prescindere da chi sia al timone, ma che ha fallito sistematicamente le campagne europee. E questo primo anno di Pep al City, per giunta arrivato dopo un anno sabbatico, sembra ricordare più gli anni tedeschi che quelli in Catalogna. Colpa, forse, anche dell’incapacità di trovare una alternativa reale ad un sistema di gioco, quello del tiki-taka, che se non hai gli interpreti giusti è forse meglio accantonare. O rivisitare.
Così come al Bayern, anche a Manchester la sensazione è quella di una squadra che fa tremenda difficoltà ad assimilare i desiderata di Guardiola. Davanti a les enfants terribles del Monaco di Leonardo Jardim (Mbappè e Lemar solo per citarne un paio) il City è parso quasi inadeguato. Dopo il 5-3 dell’andata era sufficiente cercare di mantenere il risultato. Ed invece i Citizens sono stati tramortiti dal pressing e la fantasia dei giocatori di casa. Gli uomini di Guardiola sono stati a lungo in balia dei monegaschi dimostrandosi incapaci di abbozzare anche solo un’idea di gioco. Un vero disastro, tenuto anche conto che riagguantata nonostante tutto la qualificazione con la rete di Sané, la squadra non è stata in grado di ricompattarsi, soffrire e portare a casa il risultato.
Gli estremi per l’esonero non ci sono, ma questa eliminazione ha un forte valore simbolico. E’ una sconfitta che odora di ridimensionamento. Urge riqualificare il tiki-taka ridisegnandolo magari in chiave 2017. Ad esempio, sono pochi ormai gli allenatori che rinunciano al centravanti in ragione del falso nueve. Così come non è più sufficiente far correre solo il pallone. Ormai ci si è attrezzati anche per contrastare questo ed il pressing alto è il nuovo mantra del calcio europeo. Si tratta di cambiamenti da adottare prima che sia veramente troppo tardi e Guardiola sia costretto a farsi da parte, come da lui stesso ipotizzato di recente. Urge ritrovare velocemente la condizione per non perdere l’occasione di aggrapparsi a quel che resta per non etichettare la stagione come fallimentare. Dalla Semifinale di FA Cup al finale di campionato dove la piazza ambita è la seconda. Un paio di mesi per provare a raddrizzare una stagione con pochi alti e molti bassi che potrebbe però ricordarsi come quella dell’adattamento. Il preludio ai trionfi di domani. Magari Monaco è un disegno del destino. La cenere da cui rinascere. Un Masterplan, come lo avrebbero chiamato gli Oasis.