“Il calcio greco è sempre stato uno spettacolo per maniaci. Da un paio d’anni, amico, non ce la faccio neanch’io che sono un tifoso avvelenato”. Con queste parole, taglienti come frecce aguzze, Tasos Alevras commentò il lancio del suo documentario a proposito del Gate 7.
Il Gate 7, nella sua accezione più pura, sintetizza il ricordo della più grande tragedia dello sport greco: era l’8 febbraio 1981 quando la Θύρα numero 7, il gate numero 7, avrebbe dovuto lasciar passare i tifosi biancorossi che uscivano dal Karaiskakis al termine di una stracittadina dominata dal Θρύλος (Olympiakos) e vinta per 6-0 contro i cugini dell’AEK. Il condizionale è d’obbligo perché quella porta non si aprì mai per ragioni che ancora oggi si faticano a comprendere, lasciando che la marea umana schiacciasse contro i cancelli 21 persone.
Bellum omnium contra omnes, soffocamenti, infarti, ventuno morti, venti tifosi dell’Olympiakos e uno dei gialloneri: “Ma per noi sono 21 fratelli”, giurano dal Pireo. E non potrebbe esser altrimenti, perché davanti alla morte non si scherza. Da allora, il Georgios Karaiskakis di Atene conserva al suo interno 21 sedili colorati di nero e disposti a formare un 7. Inutile dirlo, ma sono prenotati per l’eternità.
Nella sua accezione popolare, invece, il termine Gate 7 è di uso comune per delineare un sentimento d’appartenenza unico nel suo genere. Non sono tifosi, non sono ultras, non sono persone che la domenica si riuniscono per tifare la loro squadra in qualche bar ateniese. Sono una famiglia, così come lo sono quelli del Gate 13 per quel che concerne il Panathinaikos o gli Originals 21 dell’AEK. Sono persone che si uniscono in settimana, prima e dopo il lavoro, in cui lo spirito dell’ἀγών è religiosamente rispettato. In un campionato monotono e avaro di sorprese, l’unico vero motivo per restar attaccati al televisore sono loro. Le loro coreografie, i loro cori, la loro estrema forma di attaccamento morboso ad un club.
Il calcio greco è così, povero ma bello. Nel 2004 ha toccato l’apice col colpo di testa di Angelos Charisteas al Portogallo, nella finale più pazza di sempre, mentre dieci anni dopo, in Brasile, nel 2014, ha raggiunto il piazzamento migliore della sua storia in un Mondiale con gli ottavi di finale raggiunti e non superati a causa della sorprendente Costa Rica.
Troika, banche, dracme, Euro, tracollo: l’ondata che ha fatto annegare la Grecia non ha risparmiato il calcio. Nel 2014 i reduci dal Mondiale donarono i loro premi per la costruzione di centri sportivi in grado quantomeno di non gravare sulle finanze dello stato, poi Tsipras e la storia recente ci hanno messo del loro.
“La violenza negli stadi traduce delle tensioni sociali alimentate da ingiustizia e povertà” affermava qualche tempo Ioannis Zaimakis, professore di Sociologia presso l’Università di Creta. “All’interno delle stesse tifoserie esistono profonde divisioni politiche”, ha rincarato la dose Makis Solomos (autore di Football Bla-Bla). Insomma, politica ed economia entrano prepotentemente nel calcio. Il cuore del Gate 7 ad esempio si rifà all’estrema sinistra, radicalmente opposto (guarda caso) al Gate 13 del Panathinaikos schierato ad estrema destra. Gli Originals 21, tifosi dell’AEK nonché terzi incomodi ad Arene, si limitano a definirsi antifascisti. Curioso perché, vista la loro tendenza a sinistra, sarebbero finanziati personalmente dal patron del club al fine di controllare i quartieri della città.
In tutto questo, sul campo la situazione è di una monotonia disarmante. Gli scandali si susseguono (addirittura i primi risalgono al 1999, negli anni non ci si è fatti mancar proprio nulla): Koriopolis nel 2011 ha scoperchiato un vaso di Pandora fatto di organizzazioni criminali e calcioscommesse, le inchieste del 2015 hanno portato alla luce un iceberg marcio con tanto di estorsioni, minacce, matchfixing seriale con tanto di intimidazioni agli arbitri particolarmente zelanti. Il presidente dell’Olympiakos, mister Evangelos Marinakis, armatore nonché benefattore, si trovava nell’occhio del ciclone: alla fine è stato assolto, ma la decisione non parrebbe aver convinto tutti. Il presidente del Panathinaikos, ad esempio, non ha perso l’occasione per rimarcare la corruzione in ogni ambito: Giannis Alafouzos, imprenditore nel campo dell’editoria nonché proprietario del gruppo Kathimerini, è però stato invitato da Marinakis a presentarsi con le prove davanti ai giudici. E senza materiale nuovo, dopo che tutto quello precedente è stato demolito dall’impianto difensivo, è durissima farsi sentire.
Tutto questo era stato ampiamente denunciato dalla Uefa nel giugno 2011: un rapporto di 130 pagine conteneva tabulati telefonici da far accapponare la pelle, tanto da indurre il massimo organo calcistico europeo a commissariare l’EPO (la Federcalcio ellenica, per intenderci). Non è cambiata la sostanza, perché la Super League dal 2011 è roba dell’Olympiakos. L’hasthag #7inarow è fin troppo esplicativo, non serve che ci si soffermi oltre. Allargando il discorso, è dal 1997 che il campionato ha un unico proprietario. Salvo due temporanee e sporadiche intromissioni del Panathinaikos, nel 2003-04 e nel 2009-10, il trofeo trova sempre puntualmente posto nella bacheca del Pireo. Detto in altre parole, dopo Djibril Cissé nessun’altro è riuscito a soverchiare un ordine che pare stato stabilito inesorabilmente dalle Moire.
Partito, destinazione Lazio, l’attaccante ha lasciato la sua sentenza: “In queste condizioni non posso giocare”. Colpa di cori razzisti, di un calcio bello ma fino ad un certo punto, di un panorama asfissiante se non tifi per i biancorossi. Addirittura in occasione di un derby d’Atene i tifosi dell’Olympiakos lanciarono pietre verso il pullman del Pana. Episodi eccessivi che, complici violenza e evidenti torti arbitrali a favore del Θρύλος, hanno portato all’addio alla Grecia.
Con Cissé sono svaniti pure i sogni del Panathinaikos di frapporsi tra i cugini e la Super League. Il divario tecnico, pure oggi, è diverso. Tralasciando i tempi in cui l’Olympiakos acquistava i brasiliani dal Barcellona, il confronto odierno è frustrante. I biancorossi hanno il talento di Fortounis, la fisicità di Romao, le reti di Djurdjevic ed Emenike, il talento delle mezzepunte Marin e Carcela. I verdi non solo hanno smantellato la rosa (via in un colpo solo capitano e bomber, Zeca e Berg) ma i rinforzi non paiono eccelsi: scarti del nostro calcio (Hiljemark, Mounier) e sudamericani dal dubbio valore (Chávez, Luciano). Peraltro, il francese ex Montpellier s’è preso la 10: la stessa vestita da Christodoulopoulos e Govou…
In conclusione, il monopolio sulla Souper Ligka Ellada resta saldamente nelle mani di Atene: bisogna portare indietro il calendario al 1988 per trovare una quarta incomoda (il Larissa) che togliesse lo scettro ad una squadra della capitale. Conti alla mano, 75 campionati su 81 sono stati spartiti (non equamente) da Olympiakos, Panathinaikos e AEK. I primi come detto sono a quota 44, i secondi possono vantarne 20 e i gialloneri 11, l’ultimo dei quali nel 1994. Erano tutt’altri tempi, in cui Bajević vinceva il campionato e il polacco Warzycha, del Panathinaikos, la classifica cannonieri. Tempi lontani. Tanto più che oggi l’AEK deve anche convivere con l’onta della retrocessione del 2013, la prima in assoluto della storia per i gialloneri. Non nella seconda serie greca (la Football League) ma addirittura nella terza (Football League 2) dopo che vennero a mancare i soldi necessari a garantire l’iscrizione al campionato.
Storia passata, comunque; perché dopo due promozioni di fila (centrate con Traianos Dellas in panca) la terza squadra d’Atene è oggi tornata a respirare il grande calcio. Ed anche a vincere; leggasi in tal senso la conquista inaspettata nel 2016 della Kypello Ellados, la Coppa di Grecia. Vinta contro l’Olympiakos, grazie alla rete decisiva di un attaccante algerino, Rafik Djebbour, che vanta anche un passato nelle fila dei rivali cittadini. Peccato che in campionato vincano però sempre i cugini biancorossi.