Faxaflói Bay è insolitamente cupa. Un vento agitato va a raffreddare il cielo di Reykjavík incurante del fatto che, a meno di otto chilometri, giochi la nazionale islandese. I dieci minuti che separano il Laugardalsvöllur dal mare sono scanditi dalle luci soffuse emanate dal faro di Seltjarnarnes, fuoco rischiaratore di una cavalcata che, negli ultimi tre anni, ha permesso agli idoli locali di scalare 109 posizioni nel ranking FIFA. Incuranti del freddo, 10mila persone assiepano inermi al freddo e al calcio, in una notte magica. Ci sono i Tólfan, principale gruppo organizzato, col batterista Joey famoso per il chiasso tambureggiante partorito dai suoi strumenti. C’è lo sperone di roccia che fa da casa per gli Strákarnir okkar, ci sono 325mila cuori pulsanti a ritmo di un gigantesco “Húh” sincrono e collettivo. C’è l’eredità di Lars Lagerbäck, uno svedese amato come pochi a queste latitudini, ma soprattutto quel bagaglio che Heimir Hallgrímsson ha fagocitato nel retrobottega del suo studio dentistico.
Dadi Rafnsson insegna il calcio ai ragazzi di Breidablik: «Se incontri un islandese, sarà quasi deluso dalle sue capacità. Eppure, quando incontri squadre più forti, pensi solo ‘li batteremo’». In tutto il paese, popolato grossomodo come il Molise nonché più piccola nazionale di sempre ad aver raggiunto la fase finale di un Mondiale, si contano 21.508 giocatori, alias il 7% della popolazione. Si stima di trovare un allenatore qualificato ogni 500 abitanti. La favola del Davide che abbatte Golia è tutto fuorché un’improvvisazione. Il frutto di un ventennio di incessante lavoro, questo sì: cominciato a ridosso degli anni ’90, quando la Federcalcio, la KSÍ, era stanca delle magre figure e dunque pensò al salto di qualità. «Cerchiamo di non cambiare mai le nostre priorità – dicono tutti, come se fosse un mantra impresso nelle loro teste – vinciamo con l’unione, il duro lavoro e l’organizzazione, in questi campi dobbiamo essere migliori di chiunque altro».
La rivoluzione ideologica islandese
Così, dopo 23 occasioni mancate, l’isoletta dell’Atlantico ha centrato il target. Con le sue case, i suoi villaggi, le strade che fanno da rette tangenti per minuscoli quadretti familiari. Come trasformare una realtà simile – dove cui esistono 60 vocaboli per definire la neve – in una potenza del calcio? La domanda se la pose Geir Thorsteinsson, presidente della KSÍ dal 2007: «Devi capire quando sei una piccola isola come la nostra, non puoi attenerti al vecchio stile di gioco inglese, ma devi uscire e trovare nuove idee, nuovi metodi». Grazie al sostegno del leggendario Ásgeir “Sigi” Sigurvinsson, che tra 1982 e 1990 militò in Bundesliga, e successivamente della famiglia Gudjohnsen, pionieristica per il calcio islandese, l’isola ha avuto lo sviluppo sognato: nel 2000 è nata la casa del calcio a Keflavík e le poche ore del giorno concesse dalle calotte polari hanno cominciato a esser sfruttate con un pallone tra i piedi.
Tra i fan accaniti a Reykjavík, la Coppa del Mondo offre l’opportunità di dimostrare che l’Islanda rappresenta più di ghiacciai e vulcani pronti per Instagram, e un crollo bancario che ha quasi schiacciato il paese durante la crisi finanziaria del 2008. L’aggiunta alla pressione sulla squadra è che praticamente tutta la nazione starà a guardare: durante i Campionati Europei due estati fa, il 99,8% degli islandesi che stavano guardando la televisione al momento del distacco dell’Inghilterra si sono sintonizzati sul gioco.
La piccolezza fatta forza
Il presidente del paese, Gudni Jóhannesson, vinse le elezioni nel giugno 2016 anche grazie a una buona schiera di voti proveniente dalla Francia per l’Europeo. Professione universitario di storia e celebre per un attacco gli americani («la pizza con l’ananas è un’eresia»), promosse una politica trasparente e ottenne il 39% dei consensi. Il 25 giugno 2016 fu intervistato dalla stampa e rivelò che la sua prima mossa da presidente sarebbe stata quella di «recarsi in Francia per vedere l’Islanda giocare contro l’Inghilterra». Jóhannesson peraltro trionfò senza essere appoggiato da partiti politici e proprio il suo exploit individuale fu parificato a quello degli Strákarnir okkar: «Devi stare attento a giudicare la qualità di una società dal successo sportivo. Detto questo, per una piccola nazione come l’Islanda, in un mondo globalizzato, è importante dire a noi e al mondo esterno che possiamo metterci contro chi è più forte».
Nel 2012 l’Islanda era al 131° posto nel ranking mondiale e pareva stigmatizzata nel paese più nordico di tutti, dove il terreno è tundra (quando non lava) e il sole dimentica di alzarsi per tre mesi all’anno. Terra di banchieri, quelli che nel primo decennio del XXI secolo hanno convinto gli investitori a puntare sulla loro terra. Poi, quando il massiccio investimento in strutture e preparazione degli allenatori ha portato l’Islanda in Francia prima e in Russia poi, è stato inaugurato un biennio storico che oggi pare ridimensionato dalla gestione Erik Hamrén, incapace di mantenere l’Islanda ai vertici della neonata Nations League. Che il sogno sia concluso?
Islanda in rovina, lo sport a gonfie vele
Vidar Halldðrsson insegna sociologia presso l’Università dell’Islanda ed è scettico sul futuro: «Temo sia temporaneo, la storia delle piccole nazioni che stanno facendo bene sulla scena internazionale lo dimostra. Guardiamo la Norvegia, negli anni ’90 hanno avuto un grande decennio e ora sono al 49° posto. Hanno perso tutto». Anche gli investitori sopracitati hanno perso gran parte del denaro, nel 2008. Stesso anno in cui l’Islanda s’è qualificata inaspettatamente a un grande torneo sportivo, per la prima volta dal 1958. Prima era solo squadra maschile di pallamano, dal 2008 sono comparsi la pallacanestro maschile, la pallamano femminile e il calcio, maschile e femminile: «proprio mentre l’Islanda stava andando in rovina, il sui sport andò a gonfie vele».
La golden generation calcistica islandese si ritiene covata tra il 1988 e il 1990: sei calciatori di questo biennio si sono qualificati all’Europeo Under 21 del 2011 (Birkir Bjarnason, Jóhann Berg Guðmundsson, Gylfi Sigurðsson, Aron Gunnarsson, Kolbeinn Sigþórsson e Alfreð Finnbogason) ed erano presenti in Francia. Fu scomodato perfino Eiður Guðjohnsen: «Esito a usare questa frase, ma potrei dire che sono la generazione d’oro, i primi giocatori islandesi a partecipare alla fase finale di un Europeo U21. Stanno insieme da molto tempo». Conoscersi è fondamentale. Come a Euro 2016: in Francia l’8% della popolazione islandese acquistò i biglietti per le partite degli Strákarnir okkar. Poi fu chiesto a Kari Árnason quanti degli spettatori presenti allo stadio conoscesse: il difensore rispose «metà».