Sono passati sedici lunghi anni dall’ultima volta in cui il Deportivo Alavés s’è trovato così in alto in classifica. Il 19 gennaio 2002 era secondo in graduatoria quando s’era appena conclusa la 21° giornata, e come oggi si divertiva a dar fastidio al Barcellona. Era appena svanita l’ombra scura del Westfalenstadion, dove il Liverpool strappò per 5-4 quella che si può rapidamente identificare come la più emozionante finale di un trofeo continentale del nuovo secolo. Una finale pazzesca, un 5-4 da cardiopalma deciso da un golden gol sfortunato sotto forma di beffarda autorete. Il Deportivo andò sotto (Babbel e Gerrard), accorciò sol subentrato Alonso, subì il rigore di McAllister e ancora tirò fuori l’orgoglio (doppietta di Javi Moreno tra 48’ e 51’), fu nuovamente colpito da Fowler e quando la gara sembrò chiusa arrivò il pari insperato di Jordi Cruijff.
Non finì lì, perché ai supplementari quell’Alavés era arrivato in nove uomini (espulsi Magno Mocelin e capitan Antonio Karmona) denotando una disperazione tramutata in orgoglio. Capitolò solo a 4’ dal termine, dopo una strenua resistenza che per poco presagiva i calci di rigore. Le maglie rosa stavano pure riuscendo a minimizzare i rischi, contraendosi in un 5-4-1 diventato 4-3-1 dopo i due ammanchi. Solo una sfortunatissima deviazione di Delfí Geli, terzino con la numero 7, arrivato dagli anni Novanta spesi tra Barcellona e Atlético Madrid, fece capitombolare il Deportivo.
Il modello virtuoso dell’Alavés
Se normalmente sono le società di calcio a creare una sezione cestistica, era il 2011 quando il Baskonia decise di affiancare alla sua pallacanestro una costola calcistica: fu dunque acquistato il Deportivo Alavés e inserito nel cuore del popolo di Vitoria-Gasteiz, nell’Euskal Herria (o País Vasco, che dir si voglia), poi da qui curarono i rapporti con le istituzioni. Oggi il budget del Deportivo è di circa 60 milioni, un’inezia in confronto ai 960 del Barcellona, eppure già quando l’Alavés era in terza seria (Segunda División B, nel 2015/16) si pensava già a come sarebbe stata La Liga. Suona tremendamente difficile spiegarsi che, se nella scorsa stagione alla decima giornata i Vitorianos persero al Mendizorroza 1-2 col Valencia e occuparono l’ultimo posto in classifica, oggi il discorso sia totalmente opposto. Il tecnico Luis Zubeldía era stato esonerato dopo sole quattro partite, rimpiazzato da Gianni De Biasi: pure l’italiano trovò difficoltà, la squadra ottenne 6 punti in 8 gare denotando ampi limiti, poi il 5 dicembre 2017 esordì il terzo tecnico in pochi mesi, Abelardo. All’anagrafe Abelardo Fernández Antuña, 48enne originario di Gijón, batté il Girona al Mendizorroza e da lì impresse il decisivo cambio di rotta. La squadra cambiò totalmente, arrivando a salvarsi da 14° dopo che in 25 partite – dalla 14° giornata alla 38°- aveva macinato gioco ottenendo con Abelardo 41 punti dei 47 a fine anno. Un risultato certamente importante.
Una matricola che sogna in grande
Quando ad Abelardo hanno chiesto fin dove si possa spingere la sua squadra, il mister asturiano non s’è lasciato andare in troppi voli pindarici. «Es un comienzo de matrícula de honor» s’è limitato a dire, sottoscrivendo l’obiettivo della salvezza, pattuito a inizio stagione: «Nuestro objetivo es seguir el próximo año en Primera División». Poco importa che la squadra giochi un gran calcio, che Pacheco e Laguardia abbiano blindato la difesa (12 gol incassati, sesta migliore di Spagna), che Ibai Gómez e Jony stiano firmando prestazioni eccezionali. Ibai è tornato a far la differenza come ai migliori tempi a Bilbao, ha segnato 3 reti ne La Liga così come Jonathan Calleri e Rubén Sobrino. Jony recita alla perfezione il ruolo che Abelardo gli ha cucito addosso, ovvero calcar la fascia a tutto tondo come fece a Gijón e in parte al Málaga. Nell’attesa che la favola si interrompa o continui, la prensa iberica s’è già sbilanciata cavalcando l’onda. Non potrebbe esser altrimenti, visto che i giornali sono tappezzati di «El Deportivo Alavés es una fiesta», «Nunca había soñado con tener 23 puntos» e «La mágica posición del Alavés en la tabla».
Non hanno torto, del resto il 4-4-2 di Abelardo ha ottime referenze. Jony è il miglior assistman di quest’inizio de La Liga, esempio lampante di come – malgrado una dose di talento minore rispetto ad altre grandi – l’Alavés non sia al quarto posto per caso. Tra le chiavi del successo biancazzurro, spicca particolarmente la gestione (magistrale) dei calci piazzati: il Deportivo ha sfruttato meglio di tutti le strategie di punizioni e calci d’angolo, realizzando quasi il 50% dei gol (8 su 17) grazie a un meticoloso allenamento delle possibili situazioni di gioco. Il merito va a Javier Cabello, assistente che Abelardo ha trovato già a libro paga del club: Cabello è la mente, il progettista, l’uomo che valuta le caratteristiche della rosa e dà vita agli schemi con cui l’Alavés colpisce.
Il fortino d’Alavés: Mendizorroza
«Mendizorroza es un fortín». L’ultima squadra ad aver conquistato i tre punti nell’impianto di Vitoria-Gasteiz è stata l’Atlético Madrid nell’aprile scorso, grazie a un 0-1 valevole per la 25° giornata de La Liga. Da quel duello selvaggio, sette partite, cinque vittorie, due pareggi. Normale dunque che il «Mendi», com’è affettuosamente soprannominato, porti bene: «Invito a la gente a venir a un campo con un ambiente extraordinario, donde gozo como estar en Mendi durante el año que llevo – aveva chiamato a raccolta i tifosi Abelardo – tenemos una grandísima afición y les tenemos que ofrecer intensidad y que ganemos o perdamos, la gente se vaya contenta cuando el árbitro pite el final». Sì, chiaramente la gente è contenta quando l’arbitro fischia perché il sapore della sconfitta non frequenta quest’ambiente da un po’: «Mi diverto come non mai». Ci si diverte così tanto che, in questo stadio da 19200 posti, inaugurato 94 anni fa (terzo più vecchio de La Liga, dopo El Molinón e il Mestalla) e situato nel quartiere della città riservato allo sport, non si parla d’altro. El éxtasis en Mendizorroza. El estado de felicidad.
L’atmosfera particolarmente calda dell’impianto è stata poi oggetto d’elogio da parte di Manuel Alejandro García Sánchez, in arte Manu García, capitano dell’Alavés di cui fa parte dal 2012. Mediano tutto garra e sudore, combattente di battaglie pure nei polverosi campi di Segunda División B, ha raccontato: «Per me il nostro pubblico è il migliore, non smettono mai di tifare e non si sente mai un fischio, anche se perdiamo. Quando ero piccolo vivevo un’età d’oro dell’Alavés, ma per strada non si vedevano bambini indossar la maglia biancoblù, oggi invece la città è sempre qui schiacciata con noi. C’è un forte senso d’appartenenza dal basso, noi calciatori siamo trattati benissimo e riceviamo un sacco d’affetto. Ci vengono solo richiesti l’impegno e il soddisfacimento di determinati valori, la crescita sociale del club è enorme». Del resto, nel nord del Pais Vasco non c’è spazio per l’egocentrismo e gli spogliatoi anonimi del Mendizorroza ne sono l’emblema.
Dentro il collettivo dell’Alavés
Il sopracitato Manu García è nato a Vitoria-Gasteiz e in carriera s’è mosso sempre all’interno dei confini baschi: nel 2005 è stato promosso in prima squadra, poi ha giocato nella Real Unión, nell’Eibar e nell’UD Logroñés, squadra di La Rioja, che confina a nord proprio con l’Euskal Herria. Dal 2012 è al Deportivo Alavés e proprio contro i suoi ex compagni dell’Eibar, domenica 4 novembre all’Ipurúa, ha festeggiato le 204 caps col club biancazzurro, superando i 17mila minuti in albiazul. Ha pure segnato, al 4’, capitalizzando di testa un preciso cross di Jony, ma alla fine l’Alavés ha perso al 91’ dopo aver giocato dal 23’ in dieci uomini per l’espulsione di Rubén Duarte. S’è trattato del secondo sigillo stagionale per García, che il 6 ottobre – sempre di testa – aveva battuto Courtois al 95’ della partita contro il Real Madrid al Mendizorroza, terminata 1-0 proprio grazie a lui. Undici assists e 19 reti nelle sopracitate 204 presenze, Manu può vantarsi di aver giocato la finale di Copa del Rey nel maggio 2017, quella in cui il Deportivo di Pellegrino tenne testa al Barcellona, ed è il volto più iconico della rosa.
Manu García è uno dei tre eroi della promozione del maggio 2016, insieme a Pacheco e Laguardia, leader in uno spogliatoio accogliente e multiculturale. Nell’Alavés che il 16 maggio 2001 sfiorò l’impresa a Dortmund c’erano argentini (Martín Herrera, Desio e Astudillo), uruguagi (Iván Alonso), brasiliani (Magno Mocelin), serbi (Tomić), olandesi (Jordi Cruijff), perfino il rumeno Cosmin Contra e il norvegese Dan Eggen. Oggi la situazione è la medesima: l’italo-brasiliano Rodrigo Ely, il cileno Maripán, il colombiano Miguel Torres, il serbo Brasanac, i ghanesi Wakaso e Twumasi, l’argentino Calleri e lo svedese Guidetti. Lo spirito di squadra risiede a Vitoria-Gasteiz, insomma, dove “El Glorioso” sta tornando grande.