Dopo un lungo confronto tra le parti, lunedì 10 aprile è arrivata l’ufficialità: USA, Messico e Canada hanno espresso la volontà di ospitare congiuntamente i mondiali di calcio del 2026, diradando gli scetticismi intorno ad un’iniziale avance solitaria pervenuta dagli Stati Uniti. Una candidatura, quella avanzata durante la conferenza stampa di Manhattan, che se accolta porterà con sé almeno due importanti novità: la prima, già certa, riguarderà il numero di squadre ammesse, ampliato a 48 in accordo con la riforma varata dal Presidente della Fifa Gianni Infantino; la seconda è legata invece al numero di paesi ospitanti – tre, stando alla formula della candidatura – che andrebbe ad insidiare il primato stabilito nel 2002 da Giappone e Corea del Sud nell’unica edizione della manifestazione spalmata su più stati.
Il condizionale è d’obbligo, ma al momento la candidatura americana appare la soluzione più accreditata, perché se da un lato verrebbe comunque rispettato il principio di alternanza tra continenti (Europa e Asia non possono ospitare un edizione del mondiale nel 2026 in quanto già “impegnate” rispettivamente con Russia nel 2018 e Qatar nel 2022), dall’altro nessun’altra nazione si è ancora fatta avanti per vie ufficiali. Secondo quanto stabilito dalla Fifa, le candidature resteranno aperte fino al 2020, anche se è intenzione del comitato organizzatore anticipare la scadenza al 2018: considerando che soltanto dall’Africa potrebbe arrivare una richiesta per ospitare la manifestazione (l’Oceania si è infatti tirata indietro esprimendo in settimana il suo incondizionato appoggio per la cordata nordamericana), il futuro, già oggi, strizza l’occhio ai paesi sotto l’egida della Concacaf.
La decisione, frutto di un’intensa collaborazione tra i vertici delle Federcalcio di Usa, Messico e Canada, gode di grande credibilità: impianti all’avanguardia, infrastrutture già pronte, e capacità organizzative ampiamente dimostrate nel recente passato (vedi la Copa América Centenario) , sono i punti di forza della candidatura promossa da Sunil Gulati, il numero uno della United States Soccer Federation, di concerto con Decio De Maria e Victor Montagliani, a capo delle federazioni di Messico e Canada. Già definita anche la ripartizione degli incontri sul territorio, con gli Usa che sarebbero chiamati ad ospitare 60 partite mentre le restanti 20 verrebbero divise equamente tra le altre nazioni ospitanti. L’unico intoppo, in un piano all’apparenza senza falle, è rappresentato dalle politiche d’embargo varate negli ultimi mesi dalla Casa Bianca, giudicate in chiaro contrasto con lo spirito di aggregazione che dovrebbe stare alla base di una candidatura collettiva.
Due le misure varate da Donald Trump che alimentano una certa scollatura tra gli uffici di Washington e l’operato della Federazione: il Muslim ban, vale a dire il divieto d’accesso sul suolo statunitense di tutti i cittadini provenienti da sette nazioni a maggioranza islamica (Iran, Iraq, Sudan, Siria, Libia, Somalia e Yemen), e la spinosa questione dell’ampliamento del muro al confine col Messico. In entrambi i casi il punto centrale è quello dell’immigrazione, un tema trattato con le maniere forti da Trump e sul quale la Fifa invita a mitigare i toni.
I primi dissapori erano sorti lo scorso novembre quando lo stesso Gulati, ancor prima che la richiesta di ospitare i mondiali si rendesse ufficiale, aveva mostrato più di qualche dubbio sull’ipotesi di una candidatura statunitense qualora Trump fosse diventato presidente: “Vogliamo candidarci per ospitare la Coppa del Mondo, ma il nostro successo è influenzato anche dalla visione dei leader politici. Credo che la percezione degli USA sia condizionata da chi comanda alla Casa Bianca”. Dose rincarata appena un mese fa da Infantino, particolarmente avverso alle misure restrittive poste in essere contro i paesi di radice islamica: “Il Muslim ban è incompatibile con le norme che riguardano i Paesi che ospitano la manifestazione dei campionati mondiali. Qualsiasi squadra si qualifichi per la fase finale, compresi sostenitori e funzionari, deve poter avere accesso al Paese organizzatore, altrimenti non ci sarebbe la Coppa del Mondo“. Chiaro poi il monito finale: “I paletti da rispettare per ospitare la manifestazione sono e saranno semplici: ogni Paese può prendere le decisioni che vuole – ha sottolineato il Presidente della Fifa – ma se non si rispettano i criteri sportivi non ci sarà nulla da fare“.
Da allora, mentre sul piano organizzativo le federazioni sembrano aver trovato un accordo, i rapporti tra Trump e leader politici di Messico e Canada non hanno fatto che incrinarsi. Il pomo della discordia sarebbe la volontà della Casa Bianca di rinegoziare i termini del NAFTA (North American Free Trade Agreement), l’accordo di libero scambio tra i tre paesi entrato in vigore nel 1994, con l’obiettivo di trarne una maggiore posizione di forza. Un intento cautamente osteggiato sia dal Primo Ministro canadese Justin Trudeau (fautore peraltro di una campagna di sensibilizzazione in favore dei rifugiati politici che osteggia apertamente il Muslim Ban) che dal Presidente messicano Enrique Peña Nieto, il quale il 25 gennaio scorso ha perfino cancellato l’incontro bilaterale previsto con Trump: un segnale forte e una chiara risposta all’ordine esecutivo del Presidente degli Usa di procedere con la costruzione del muro, cui il Messico dovrebbe contribuire in termini economici.
Se da un lato è vero che nel 2026 l’esperienza alla guida del Paese di Donald Trump potrà definirsi in ogni caso conclusa (un eventuale secondo mandato scadrebbe infatti un anno prima dei mondiali nordamericani), dall’altro bisogna considerare che gran parte della preparazione all’evento si terrà sotto la sua presidenza, con oneri e onori del caso. Più i primi che i secondi sul fronte messicano, dove i maggiori problemi per Trump arrivano dalla decisione presa dalle Federcalcio di ospitare in Messico la cerimonia d’apertura dei Mondiali: il leader repubblicano potrebbe così trovarsi nel maggio 2020, termine previsto per l’ufficializzazione della candidatura, a dover attenuare il rigido programma di politica estera nei confronti della nazione confinante, nel pieno di una nuova campagna elettorale. Senza trascurare che la stessa opera di alleggerimento dei contenuti andrebbe applicata anche alle restrizioni previste dal Muslim Ban, sotto pressione della Fifa, qualora uno dei sette Paesi interdetti dovesse qualificarsi ai Mondiali del 2026.
Nella conferenza di presentazione di Manhattan, i vertici delle Federazioni di Messico e Canada hanno mostrato piena fiducia davanti all’ipotesi di una candidatura congiunta. Per Decio de Maria, presidente della Federacion Mexicana de Futbol, si tratterebbe della “possibilità di essere il primo paese al mondo ad aver ospitato la competizione in ben tre occasioni dopo il 1970 e il 1986”; per i canadesi, invece, c’è tutta l’ebrezza di una “prima volta” dal momento che il Canada, come ha ricordato Victor Montagliani, è “l’unica nazione del G8, nonostante i successi nel calcio femminile e in quello giovanile, a non aver ancora ospitato un’edizione dei mondiali”.
Grande orgoglio anche per Sunil Gulati che non si è astenuto dal mandare un velato messaggio al Presidente Donald Trump in merito alla candidatura regionale: “Crediamo fortemente che questa sia la cosa giusta per il nostro sport e per il nostro paese. Sarà un’esperienza unica per lo sport, per i giocatori e per i tifosi e non c’è dubbio che se le nostre tre nazioni si metteranno insieme – ha concluso il Presidente della Us Soccer Federation – riusciranno a creare un’esperienza eccezionale al servizio del calcio, dei suoi campioni, dei tifosi e di tutti i nostri partners”.
Nonostante Gulati abbia dichiarato di godere del pieno sostegno di Donald Trump (fonte di parecche richieste piovute a Washington per ricevere una replica del Presidente), dalla Casa Bianca non è ancora arrivata nessuna nota ufficiale. Un silenzio che rende bene l’idea dell’imbarazzo e della divergenza. Di vedute e di aspirazioni.