Fra tutti i romanzi calcistici della Premier League quello del Tottenham scritto da Pochettino sembra essere il più incostante: verrebbe da dire che l’autore sembri quasi soffrire del “blocco dello scrittore”
Ma non è una pecca che lo accompagna per tutta la narrazione, che anzi raggiunge livelli di scrittura importanti – a tratti i migliori. Il problema arriva nel momento di stendere il finale, quando bisogna decidere che fine far fare ai propri personaggi. E’ qui infatti che sembra prevalere spesso (diciamo sempre) la scelta più languida.
Ogni atto conclusivo della stagione del Tottenham assume infatti la sostanza di un una storia incolore, di una sfida che alla fine si abbandona per un qualche default. A quanto pare, nella storia recente vincere non è mai stato l’obbiettivo della squadra di Londra che, del resto, non porta a casa un trofeo dalla stagione 2007-2008.
Pochettino ha costruito una grande squadra che sa giocare un buon calcio; anzi, si potrebbe affermare senza incorrere in alcun eresia che il Tottenham faccia scuola. Però, lungi dai tanti fenomeni che orchestrano il movimento calcistico internazionale – Guardiola, Ancelotti, Klopp – non c’è un riscontro storico nel buon lavoro degli Spurs. Anche qui è un po’ uno dei topoi per eccellenza degli sconfitti del pallone: chi perde, mediamente, difficilmente vien ricordato.
Il Tottenham infatti che da almeno quattro stagioni incanta in Premier League e supera la fase a gironi di Champions, sul più bello, quando arriva il momento di raccogliere quanto seminato, sembra quasi auto-imporsi un blocco sul percorso che fa si che a conti fatti gli Spurs non raggiungano un traguardo realmente soddisfacente. Dunque, alla luce di questo: quanto è giusto ritenere il Tottenham un “top club” ?
Mauricio Pochettino è arrivato a White Hart Lane nel 2014 dopo aver allenato il Southampton per una stagione e l’Espanyol in Spagna per quattro anni. La bravura nella preparazione della partita, nello studio della squadra avversaria e nella crescita dei giovani giocatori sono tutte caratteristiche giustamente attribuite al manager uruguaiano.
Tuttavia gli viene imputata anche una scarsa ragionevolezza nel saper gestire sul lungo gli impegni della squadra che puntualmente fino a novembre-dicembre fa la voce grossa nelle parti alte della classifica salvo poi sgonfiarsi nei mesi successivi; questo forse è il vero problema degli Spurs.
Non c’è paura di fronteggiare i budget più ampi degli avversari o la superiorità tecnica dei Palloni d’Oro, perché la squadra ha il potenziale per farlo e lo ha dimostrato in diverse occasioni. La sfida perennemente persa dal Tottenham è però nel perseguire un obbiettivo solido sul lungo termine; un qualcosa che non sia la solita qualificazione all’Europa che conta o il superare i gironi di Champions.
Pochettino quest’anno ha scelto di non muovere il mercato della propria squadra, affidandosi all’evoluzione di alcuni talenti – Winks su tutti, ma in generale è quello che è successo nello scorso campionato con Trippier – e salvaguardando il pacchetto di fenomeni della sua squadra, Harry Kane e Dele Alli su tutti.
Eppure la semplice autogestione, per quanto il Tottenham sia una squadra con un gran valore complessivo, non può essere sufficiente per competere con chi investe cospicuamente ogni stagione. O meglio, ne rappresenta la premessa; ma non paga sul lungo termine.
Certo, la bravura dell’allenatore sudamericano è stata quella di aver dato un’identità tattica e filosofica a un club che da anni non riusciva a essere competitivo, portando la squadra ad avere perlomeno delle ambizioni di un certo tipo.
Il Tottenham ha dei gran giocatori; una rosa che comprende giovani promettenti, calciatori assolutamente moderni e fenomeni puri. Pochettino ha in mano una squadra completa, con una duplicità di uomini in ogni ruolo e con risorse interessanti provenienti dall’Academy; in termini di singoli, il maggior risultato del lavoro dell’allenatore uruguaiano è sicuramente la maturazione di Dele Alli, che grazie al tecnico ha trovato un canone da seguire per diventare l’odierno fenomeno.
Il 4-2-3-1 degli Spurs ha avuto anche il merito di rispolverare un ruolo caduto da tempo in disuso, il trequartista, che nelle sue forme di Son, Alli e Eriksen ha alimentato uno dei sistemi offensivi più solerte e dinamico del calcio moderno. Non sono secondari anche i contributi fisici di una difesa d’esperienza (l’innesto di Sanchez è un esperimento che procede step by step con lungimiranti risultati) e una copertura del double pivote in mediana di gran efficienza.
Dunque, tutto ciò premesso, non sono certo la solidità od il bagaglio tecnico a intossicare le stagioni del Tottenham, la cui rosa vale 837,50 milioni di euro (dato di Transfermarkt.it).
Il vero tumore della squadra di Pochettino è invece l’inspiegabile assenza di un motore di continuità nella concentrazione, i cui sintomi sono identificabili nella perdita di punti nel breve (esempio clamoroso il recente pareggio in Olanda con il PSV) e l’abbandono delle chance di vincere qualcosa sul lungo. Perché il Manchester City di Guardiola vince e cresce non solo per una questione di solidità tecnica alle spalle ma anche per una maniacale dedizione ai dettagli e all’aspetto motivazionale.
In un’intervista a Rivista Undici del giugno 2017, Pochettino ha ammesso di essere una persona insoddisfatta per natura e di apprezzare quell’etichetta di normal one che qualcuno gli aveva assegnato.
Effettivamente Pochettino non è un’icona come lo stesso Guardiola o Mourinho o Conte: è un maniaco della tattica che appare semplicemente per quello che è. Esattamente come il suo Tottenham, che non si nasconde dietro a nulla ma che arriva a un punto in cui perde il respiro per l’alta quota. Negli anni si sono susseguiti complimenti per il gioco, esaltazione della tattica e richieste milionarie per i propri singoli: ma questo cosa ha portato a Londra? L’ineccepibilità di uno status di semi perfezione tecnico-tattica come quello del Tottenham vale un lavoro di motivazione che sia più funzionale del gioco?
C’è chi riesce in entrambi, come Ancelotti e Guardiola, e si innalza così tra i migliori del mondo; chi invece solo in un aspetto (Mourinho) e chi solo nell’altro (Pochettino, in Italia verrebbe da pensare a Marco Giampaolo).
Il Tottenham con Pochettino non è mai sceso oltre il quinto posto (ottenuto tra l’altro alla prima stagione dell’uruguaiano a Londra) e nel 2016/2017 è arrivato non così distante dal Chelsea campione. Numeri e risultati da grande club, senza dubbio.
Ma per poter entrare nel gota dei più forti, per poter ambire ad una poltrona al tavolo dei grandi non basta più il bel gioco o avere la superiorità tecnico-tattica in un singolo incontro (vedi Juventus-Tottenham 2-2): serve una mentalità che distingua. O sarà difficile poter scendere prima o poi dalle montagne russe.