Dieci istantanee di Roberto Baggio, sparpagliate un po’ a caso, ma con fantasia. Passo dopo passo, fino a formare un cerchio.
Nella Poetica, Aristotele affermava che una favola per essere tale deve essere compiuta e perfetta o, in altre parole, deve possedere un’unità intrinseca. L’essenza della completezza risiederebbe in un andamento cronologico lineare che, come un segmento tratteggiato da sinistra verso destra, prevede un inizio, uno svolgimento e una fine. Le due estremità come capi di interruzione, in mezzo il viaggio, di volta in volta differente, che rende una storia unica ancor prima che unita.
Uno dei simboli più iconici del Buddhismo Zen è l’Enso, un cerchio realizzato in un’unica soluzione di continuità che non prevede possibilità di cambiamento o correzione. L’Enso simboleggia l’illuminazione, il lascito tangibile di una mente libera che sublima la creatività del binomio mente-corpo. Enso, in maniera diversa rispetto a come intendeva Aristotele, è unità. Enso è sostanzialmente completezza, quando lo spirito trascende la logica.
La vita di Roberto Baggio è una pennellata che si contorce su se stessa scorrendo tra le pieghe di un foglio stropicciato. Chiuso il cerchio, tutte le insicurezze della mano svaniscono, come per incanto. Successi ed errori finiscono per assomigliarsi in un eterno ritorno che distorce il tempo, e i simboli, più che i fatti, ne restituiscono un’immagine fedele. Il dipinto che Roberto Baggio ha impresso sulla tela è etereo, ineffabile. Roberto Baggio è un Enso.
Il Dolore
Come nel caso del pittogramma nipponico, anche nella carriera di Baggio inizio e fine sfumano in una mistica identificazione. Il dolore incasella la chiusura del cerchio da Caldogno a Brescia, un itinerario intriso di una sofferenza vissuta con regalità, sviscerata fino in fondo soltanto quando il sipario sta per calare. E’ il 24 maggio del 2004 quando Roberto, poco prima di giocare la sua ultima partita, avvicina un cameramen e gli dice: “Vieni a vedere come sto giocando”.
E’ sugli scalini che portano al prato di San Siro, l’avversario è il Milan. Mentre il campo dell’obiettivo si restringe, Roby punta l’indice in prossimità della rotula: “Guarda qua, si vede bene?”. Alla pressione del polpastrello, un vistoso rigonfiamento si manifesta di colpo sul versante opposto dell’articolazione. Sembra che lo abbiano irrigato, quel ginocchio. Il liquido al suo interno si ribella spingendo forte sulle pareti. L’aria con cui mostra al mondo il dolore, nel giorno del suo addio al calcio, è colma di soddisfazione. E’ la prova che “Ho dato tutto, non ho rimpianti” – come confiderà negli spogliatoi al manager e amico Walter Petrone – non è una frase di circostanza, ma la verità più profonda. Aveva già pensato di ritirarsi qualche mese addietro, dopo l’ennesimo infortunio, ma l’immagine di un uomo con la faccia nel fango non gli avrebbe reso giustizia: “Dovevo dare il giusto tributo alla gente” – dirà.
Diciannove anni prima le condizioni del suo ginocchio erano le stesse, se non peggiori. “Mamma, se mi vuoi bene ammazzami” diceva ai tempi del Vicenza quando il suo più grande sogno sembrava destinato ad andare in pezzi insieme al suo crociato. Da lì le operazioni, le riabilitazioni solitarie e il dolore come viscido compagno d’esistenza: un segreto da custodire gelosamente, perché in fondo agli altri sarebbe importato ben poco. Non è un caso che Baggio non pianga mentre San Siro lo acclama (a dire il vero una lacrima scende nell’abbraccio con Maldini). L’ultima partita è un giorno di festa o, se preferite, la liberazione da un sortilegio che gli ha logorato le membra e dilaniato l’anima. La condivisione del dolore, poi, è un’esperienza purificatrice. Per una volta è il mondo intorno a lui a soffrire – i parenti, gli amici di una vita diranno: “Eravamo più dispiaciuti noi che lui” – mentre Roby incede con un sorriso ascetico, orientaleggiante. Come i suoi occhi e la sua fede.
Il dolore, come vedremo anche più avanti, non è una semplice istantanea. Sono pochi i momenti in cui Roby non abbia sofferto.
Vetri rotti
L’epica del bambino con un pallone in mano costituisce un archetipo che fugge dal tempo e dallo spazio. Dalle Ande al Mar del Giappone, al di là delle culture e delle epoche, è un immagine che ritrae un bisogno universale e che restituisce un certo senso di serenità. Anche la mitopoiesi di Baggio aderisce all’epica classica: quel bambino poteva trovarsi in una favela di Rio, o in un igloo della Lapponia, invece si materializza in Roby che rompe i vetri dell’officina del padre. Dietro la porta o sotto al letto, scompare dalla vita nebulosa di Caldogno, e sogna ad occhi aperti. Papà Florindo lo trova, ma lui è immune al rimprovero: non c’è dolo nel vivere con il pallone incollato ai piedi.
Negli anni col Vicenza l’aurea che gli si cuce addosso è quella del predestinato. “Correre dritto verso la porta, anche quando sembra impossibile”- ripete tra sé e sé. Baggio esegue come se si trattasse di un precetto religioso, la reiterazione meccanica di un istinto che lo conduce quasi all’estraniamento. Fin da subito Roby è altro da sé, per lo meno sul campo. A tenerlo coi piedi per terra ci sono alcuni valori insindacabili, trasmessi da un padre amorevole ma autoritario. Parlerà sempre di rispetto, trasparenza e umiltà. E con questi andrà a parametrare ogni rapporto umano e professionale, acuendo la discrasia tra la libertà dei suoi piedi e l’inflessibilità del paradigma morale.
Se il sogno è la linfa, la determinazione è la corteccia, spessa al punto giusto per non contaminare il nucleo con le polluzioni della vita. E’ il 5 maggio 1985 quanto il crociato si infrange per la prima volta, come un vetro con una pallonata scagliata da un ragazzino. La Fiorentina lo aspetta, investe tempo e denaro per la sua riabilitazione dopo un intervento in Francia, per l’epoca quasi visionario. Baggio ce l’ha fatta, è arrivato in serie A, ma le sue gambe non gli consentono nemmeno di stare in piedi. Deve reimparare a camminare, a correre con la stessa forza che pulsa nel cranio. Baggio scopre per la prima volta di essere solo: diventa un monaco, scompare, lotta con i suoi demoni. Non sarà la prima volta.
L’Amore è Viola
Il trasferimento di Baggio alla Fiorentina segue due differenti strade di pensiero: da un lato c’è grande entusiasmo per essersi assicurati il più grande prospetto del calcio italiano, dall’altro un razionale scetticismo per le condizioni fisiche in cui Roby versa. In molti faticano a credere che quel ragazzino sulle stampelle possa davvero fare le fortune della Viola. Il primo anno lo passa lontano dal verde del Franchi a ritemprarsi nel corpo e nelle motivazioni. Debutta in Serie A la stagione seguente, il 21 settembre dell’86 contro la Sampdoria, e al termine della partita si rende protagonista di un insolito siparietto con un giornalista: “No, non sono abbastanza contento di me stesso. Quell’azione in cui non ho dato la palla a Monelli sul 2-0 magari potrei ripeterla in futuro sullo 0-0”. “Peccato di gioventù?” – incalza l’intervistatore, visibilmente spiazzato da una dichiarazione d’esordio tutt’altro che convenzionale. “Sì, devo cercare di abbandonarli” – replica Baggio. Le sue parole scivolano via generando un tenero contrasto con i ricci ribelli.
Passano quattro giorni e il menisco si rompe, di nuovo. Altro dolore, altra solitudine e il tuffo nel Buddhismo per colmare un’attesa infinita. Non quella del tempo, l’attesa è uno stato d’animo ormai. Stavolta il monito a mamma Matilde è diverso: “Torno e rompo il culo a tutti”. Rientra in campo alla penultima giornata e segna il suo primo gol in A al Napoli di Maradona, il giorno della festa scudetto (che investitura, l’ennesimo simbolo). Si prende sinuosamente il cuore di Firenze costruendo un tandem d’attacco tra i migliori in circolazione, lui e Borgonovo: velocità e talento al quadrato, il segreto della B2. Lega con i ragazzi della Fiesole, rimpolpando quel sentimento che sta alla base del rapporto conflittuale con molti allenatori, secondo cui il calcio è roba tra chi lo gioca e chi lo segue. Tutte le strutture e le figure nel mezzo ne contaminano la sacralità.
Baggio è dio e uomo tra gli uomini. “Nei suoi piedi cantavano gli angeli” – dirà Aldo Groppi, suo allenatore a Firenze, ritraendo la bellezza eterea dei suoi movimenti. Con addosso la maglia della Viola, Baggio ha ancora il candore di un ragazzino e, non ancora affannato dalle distorsioni dell’età adulta, regala quanto di meglio ha da offrire: “Il Baggio che avete visto a Firenze è stato senza dubbio il più puro” – sospirerà ripensando ai momenti più riconcilianti della sua vita calcistica. Una malinconia consolazione per una terra che lo ha amato dal profondo, dalla quale è stato rapito un pomeriggio afoso nel maggio del 1990.
Baggio, maestro zen
“Il tempo è un cerchio piatto. Tutto che quello che abbiamo fatto o che faremo, lo faremo ancora e ancora e per sempre”.
Non so perché ma la frase pronunciata da Rust Cohle (interpretato da uno straordinario Matthew McConaughey) in True Detective, mi sembra parecchio calzante rispetto al modo in cui Roberto Baggio ha condotto la sua esistenza: un uomo che per quanto s’illuda di imboccare nuove strade finisce sempre per ripetere lo stesso percorso, tracciando un cerchio perfetto mentre tutto il resto del mondo viaggia imperterrito in linea retta. L’avvicinamento alla dottrina buddhista è il farmaco che lenisce il dolore, il fuoco che solidifica una migliore consapevolezza di fronte a ciascun evento di una vita già vissuta.
Frasi come “capire quali strade seguire e quali lasciar perdere” o “ognuno è responsabile di quello che gli succede: tutto ciò che ti capita, è colpa o merito tuo” ritagliano l’esigenza di motivazioni di fronte ad un conto presentato dalla vita ancor prima di essere consumata. I precetti della cultura operaia si fondono a quelli orientali generando un’alchimia eccentrica, condensata in un codino che ondeggia irriverente tra le scapole.
Il ratto di Baggio
Portare via Roberto Baggio dalla Fiorentina è stato come strappare un figlio dalle braccia di una madre. Darlo alla Juve, poi, è stato come lanciarlo in pasto ai lupi. A perpetrare uno dei trasferimenti più discussi degli ultimi trent’anni c’è Antonio Caliendo, uno che la professione di procuratore l’ha inventata, e che pur di gonfiare il portafogli è disposto a far versare anche più di una lacrima. Così, mentre Firenze insorge, il 18 maggio del 1990 Baggio è un nuovo giocatore bianconero.
Le smentite, gli accordi sottobanco, le preghiere, i silenzi: nulla può al cospetto di un offerta complessiva di 25 miliardi di lire che fa di Baggio l’acquisto più oneroso di sempre. Roby vive quei giorni con estrema irrequietezza. Si lascia scivolare addosso gli eventi, scompare come ogni volta che il dolore s’irradia a fior di pelle. Accusa la perdita ma con fare atarassico non si espone. Soltanto Caliendo, in un poetico tentativo di riabilitazione, affermerà: “La fantasia del suo calcio non può essere relegata ad una sola città”. Alla presentazione con la Juventus gli passeranno una sciarpa, ma Roberto rifiuterà di indossarla. Il gesto si pone in netta antitesi a quello che succederà pochi mesi più tardi, il 7 aprile del 1991, quando Baggio tornerà a Firenze da avversario.
Una sola nuvola a macchiare il cielo terso, proiettando l’ombra mentre tutt’intorno è luce. Con lo sguardo a fil di prato, Baggio scompare nel grigiore dei rimorsi, sentendosi solo, ancora una volta, in mezzo a voci un tempo amiche. Baggio, quel pomeriggio al Franchi, è una nuvola densa di pioggia. Eppure s’illumina pure lui per un’istante: una serpentina tra le maglie viola, la trattenuta del difensore avversario tollerata con eleganza, e il fischio dell’arbitro che indica il dischetto. Dovrebbe calciare Baggio, ma è tremendamente distante. “Mi sono preso la responsabilità io perché lui ha preferito non tirare” dirà De Agostini dopo aver sbagliato dagli undici metri. Roberto, sostituito pochi minuti più tardi, viene sommerso dagli ululati del Franchi. Mentre si trascina verso la panchina, una sciarpa della Fiorentina si adagia sull’erba. La raccoglie, la tiene stretta, assaporandone le fibre con le dita. I fischi si trasformano in applausi: il perdono della Fiesole lo riconcilia col mondo.
Tutti i colori sanno di azzurro
Se c’è una maglia, tra tutte quelle indossate da Baggio, che meglio ne incarna i tratti epici è senza dubbio quella della Nazionale. L’azzurro è il colore che dissolve i pregiudizi e che irradia Roberto come icona nazionalpopolare. Sedici anni, cinque allenatori, poesia decantata in ogni angolo della terra. Anche qui, un cerchio più che una linea: l’immagine è quella di un abbraccio che mette tutti d’accordo.
Nelle Notti Magiche di Italia ’90 conquista il cuore degli italiani placando gli animi dopo il burrascoso addio a Firenze. Il suo talento immanente si intreccia con l’estemporaneità di Schillaci, formando una coppia d’estremi ben assortita: il genio dell’uno opposto all’istinto dell’altro, entrambi partiti dietro nelle gerarchie e trascinatori in prossimità del traguardo. Totò che buca la rete di testa e Roby che s’insinua come un coltello nel burro tra i difensori, sono due note stridenti che combinate insieme restituiscono l’accordo che spacca. Quella semifinale persa ai rigori con l’Argentina spingerà Baggio a formulare una frase che, quattro anni più tardi, ritornerà attuale: “Preferisco perdere all’ultimo minuto con un gol su azione, che perdere ai rigori”. La frustrazione in effetti è doppia: è un momento in cui la libertà creativa viene sensibilmente accantonata, e uno come Baggio non può accettarlo. A Pasadena, dopo averci tirato giù dall’aereo di ritorno, ci ricaccerà dentro a forza con un tiro dagli undici metri destinato a scavare un argine tra le epoche. La ciclicità del dolore riaffiora nella bandiera a stelle e strisce.
La Juventus e lo scudetto del paradosso
La prima stagione a Torino trascorre tra ripensamenti e malumori. La squadra è giovane, attesa ad un delicato processo di rinnovamento sotto la guida di Gigi Maifredi, un tecnico dalle idee innovative che sceglie Baggio come pedina per la rivoluzione. Il progetto fallisce dopo appena un anno, al bel gioco si antepone il pragmatismo della vecchia guardia: è Trapattoni l’uomo scelto per la restaurazione, a colpi di equilibrio e solidità difensiva. Roby vacilla, i dissidi tattici e personali con il Trap ne condizionano il rendimento. Nel gennaio del ’92 all’improvviso si sblocca e per la prima volta fa breccia nel cuore dei tifosi bianconeri.
Se il Baggio visto a Firenze è il più puro, quello delle tre stagioni di mezzo alla Juve è senza dubbio il più efficace. La distanza dal Milan degli Invincibili resta incolmabile, meglio virare su altri lidi: Baggio trascina la Juve alla conquista della Coppa Uefa, stendendo da solo PSG e Dortmund, e mette le mani sul Pallone d’oro, terzo italiano di sempre dopo Rivera e Rossi. La definizione di Platini di “nove e mezzo”, volta a identificarne una certa contaminazione nel gioco rispetto ai grandi dieci del passato, non lo turba più di tanto: il ricordo più bello di quelle giornate a Parigi non sono i tributi degli uomini in doppiopetto di France Football, ma gli occhi della figlia Valentina, puri come quelli del papà davanti alla magia di EuroDisney.
Dalla Tour Eiffel a Casoni Borroni, un piccolo centro sulle sponde del Po, transitano quasi mille chilometri. Una distanza abissale, simile allo scollamento che Roby percepisce tra l’immagine riflessa all’esterno e quella interiore. Sarà anche il più grande calciatore del mondo, ma in nessun altro luogo si sente al sicuro come nell’osteria dei signori Romé. Sperduto nei boschi, avvolto dalla nebbia, preferisce ancora una volta la solitudine alle luci della ribalta. Dopo un’altra stagione a caccia del Milan, arriva finalmente lo scudetto: è la stagione 1994/95, sulla panchina della Juve siede Marcello Lippi, e Baggio non è mai stato così lontano.
La Juve deciderà di estrometterlo dal progetto tecnico pochi giorni dopo, scegliendo di puntare su un giovane, veneto come lui, che parla lo stesso idioma calcistico. Se Baggio però ne incarna un’interpretazione solipsistica, Del Piero è quel talento che si prodiga per gli altri, mettendosi al servizio di un bene superiore. Nella mistica della squadra sostenuta da Lippi, Del Piero è ciò di cui la Juve ha bisogno.
Le porte dell’Inferno
“Quel rigore non l’ha tirato al portiere, l’ha tirato in cielo. E poi il pallone non è tornato giù, nessuno l’ha più visto. C’era Dio che stava guardando il rigore di Baggio e se l’è trovato conficcato nel petto: quella palla ha preso in pieno il cuore di Dio”.
Una svisatura, come una nota di Jimi Hendrix in un concerto di Vivaldi, così l’amico Roberto Benigni ha descritto l’istantanea più controversa della carriera di Baggio. La forza poetica sembra presa in prestito dalla Divina Commedia, così come il caldo torrido di Pasadena pare sradicato dall’Inferno dantesco. La serie di rigori nella finale col Brasile era già compromessa, ma il ricordo che si lega ad USA ’94 è il cuore infranto di Roberto Baggio, un cuore immenso, capace di tirarci su di peso durante una delle tournée più deludenti della Nazionale, accompagnandoci per mano, come dei viaggiatori sperduti, fino alle soglie del Paradiso. Quell’esplosione in petto, di Dio e di Roby, è deflagrata nei televisori di milioni italiani tracciando un solco nel tempo. Prima e dopo Pasadena, anche per chi ancora non era nato.
“Ho sbagliato tanti rigori ma non li ho mai calciati alti. Non riesco a capire come sia finito lassù, non avevo neanche tirato forte. Avevo calciato come le altre volte: ero tranquillo, concentrato, quasi estraniato”. Il commento di Baggio fa il filo con l’immagine romantica di Benigni. In effetti, pare proprio una traiettoria pilotata dall’esterno, oltre la volontà del calciante. Un divertissment che alla distanza rende tutto più affascinante: come un neo sul volto di una bella ragazza, all’inizio stona ma poi rapisce, imprigionando il cuore in qualcosa di trascendentale.
Una lenta fine
La carica simbolica che la delusione di USA ’94 assume nella vita di Baggio è tale da increspare l’ascesa del suo talento. Roby ha appena 27 anni, eppure insieme a quella palla sfumata nel cielo sembra essere scomparsa anche la capacità di incidere dei più grandi. Baggio s’arena nel vittimismo, perlustra la gabbia in cui è rinchiuso come una tigre strappata alla giungla. Soffre, si nutre del dolore, ma quando esce ricorda a tutti la sua esotica bellezza.
Noie muscolari che si accavallano l’un l’altra, allenatori che, a protezione di un tatticismo scellerato, non comprendono che il talento ha bisogno di libertà: gli anni al Milan, al Bologna e poi all’Inter sono quella reiterazione di un tempo piatto, in cui ogni scelta, ogni calvario e ogni apparente redenzione, si alternano in un eterno ritorno all’uguale.
Ancelotti che lo rifiuta al Parma – “Sono stato un pazzo. Ero giovane e tatticamente rigido. Oggi non rinuncerei mai a un campione come Baggio” – per preservare il suo 4-4-2 e certi equilibri nello spogliatoio, Capello e Sacchi che lo incerottano in rotazioni incomprensibili e Ulivieri che accoglie con perplessità il suo approdo al Bologna. Baggio intanto si taglia il codino, razionalizza la sua immagine esterna per ritrovare l’essenzialità di un calcio fin troppo spesso contaminato dalle sovrastrutture. Gioca praticamente su una gamba sola, viene accantonato, stigmatizzato come un tipo difficile da gestire: “La verità è che ho sempre avuto un rapporto meraviglioso con i tifosi. Questo dava fastidio a molti allenatori”.
Nirvana
L’Albero della Bodhi era un antico albero sacro situato a Bodh Gaya, a centro chilometri da Patna nello stato indiano di Bihar, sotto il quale Siddhartha Gautama, meglio noto come Buddha, giunse all’illuminazione. Oggi al suo posto, collocato all’interno del complesso di culto di Mahabodhi, si staglia un fico sacro che discende da quell’esemplare. Un albero maestoso, scanalato nella spessa corteccia da un vorticoso groviglio di radici, che si snoda verso il cielo facendo perdere le tracce del suo contatto con la nuda terra.
L’ultimo Baggio è l’Albero della Bodhi. I capelli, cenerei e corposi come spesse radici , le movenze con cui ondeggia sul campo, compassate dal peso del tempo, rimandano ad un’aurea di venerabilità. La cura con cui centellina le forze, la potenza equilibrata con cui distilla il suo talento, è tutto un rimando ad una saggezza temprata sul dolore, accettato ora come fedele compagno e non più come fattore avverso. A Brescia Baggio raggiunge il suo nirvana, contando i giorni verso quell’atto assolutorio, l’addio al calcio, che ha il sapore dell’illuminazione.
Alcuni artisti giapponesi ritengono più opportuno non chiudere il cerchio dell’Enso, lasciando un’apertura sulla tela a simboleggiare la connessione con qualcosa di più grande. E’ un’immagine che si addice anche all’esistenza di Baggio, costantemente proiettato a significati più profondi che un semplice rettangolo verde faticherebbe a contenere. L’istantanea di Amatrice delle ultime ore, quelle lacrime davanti alle telecamere alla richiesta di una spiegazione per una scelta così poco convenzionale, rende bene l’idea della nobiltà di un ragazzo che, nella sofferenza e nonostante la sofferenza, ha saputo diventare uomo. E ancora oggi, dalle Ande al Mar del Giappone, ciascun bambino con in mano un pallone sogna di essere un po’ come Roberto Baggio.