Prima dell’inizio della Premier League 2018-19, sole tre squadre erano riuscite ad arrivare da imbattute al giro di boa invernale. Se però l’Arsenal 2003-04, il Manchester United 2011-12 e il Manchester City 2017-18 avevano tenuto fino a fine stagione, magari subendo sconfitte ma alzando comunque il trofeo in primavera, il Liverpool sogna con un pugno d’aria in mano. Le rive del Mersey abbeverano giustamente le idilliache premonizioni di un titolo che manca ormai dal 1990 ad Anfield. Per molti opinionisti delle reti televisive britanniche sarebbe un ottimo velo coprente quel Liverpool-Chelsea che nell’aprile 2014 costò il titolo ai Reds, assumendo le beffarde spoglie di un errore assurdo da parte di un uomo come Steven Gerrard che sentiva quella gara – decisiva – come nessun altro. Acqua passata, ma tasto dolente ogni qual volta si parla dell’astinenza di trofei in casa Klopp. La sensazione è chiara: e se questo sia magari l’anno buono, con 16 vittorie e 3 pareggi che hanno lanciato i Reds al sorpasso sul Manchester City di Pep Guardiola?
Non c’è solo la cabala, chiaramente, perché dalla stagione 2002-03 la storia dice che 15/17 delle squadre campionesse d’inverno hanno alzato il titolo a maggio. Il problema è che entrambe le compagini che hanno fallito rispondono proprio al nome del Liverpool: nell’annata 2008-09 fu Sir Alex Ferguson a festeggiare, nel 2013-14 il Chelsea personificato dalla grinta di Demba Ba ribaltò un plausibilmente intoccabile vantaggio di cinque punti in tre gare. Non fu solo una questione di perder la testa della classifica, ma pure di vedere il morale crollare fin sotto gli scarpini. Mancano sole 19 gare all’ulteriore giro di boa che questa volta potrebbe voler dire stop ai brutti presagi. E la fine di questa curiosa statistica.
Prospettive Spurs, a Londra
Il Manchester City che ha dilapidato un recente cospicuo vantaggio è ormai secondo. A cavallo dei Citizens di Guardiola c’è il Tottenham, che non vince una Premier addirittura dal 1961 e che – dopo qualche anno di rodaggio – pare una creatura ben più temibile di quella che nel 2016 perse la volata nell’anno in cui la prospettiva di issarsi campioni sarebbe stata ben ghiotta. Le coordinate astrali di quella stagione (contemporaneo crollo di City e United, i problemi di Mou al Chelsea, l’assenza del Liverpool e la stanchezza dell’Arsenal sul lungo periodo) però portarono a Filbert Street il campionato, tenuto ben saldo dalle muscolose braccia di capitan Wes Morgan al Leicester di Ranieri. Lo scotto fu incredibile, motivo per cui tre anni dopo può esserci la rivincita partita a Natale. Storicamente gli Spurs danno il loro meglio a ridosso del Boxing Day, e quest’anno non c’è stata eccezione (11 reti segnate in tre giorni, prima il 2-6 sull’Everton, poi il 5-0 perentorio sul Bournemouth). Il problema è che sabato il Wolverhampton stella cadente di questa Premier League s’è imposto per 1-3 al White Hart Lane, lasciando non poco amaro in bocca al tecnico Pochettino: «We must improve to be title contenders».
In termini di prestazioni resta un dicembre molto positivo togliendo la sconfitta per 4-2 all’Emirates nel derby londinese. Gran parte del merito di questo exploit va a Mauricio Pochettino, l’argentino che dal 2014 ha messo una pietra sulle precedenti gestioni Redknapp, Villas-Boas e Sherwood. Nei quattro anni da allora sono arrivati un quinto posto, due terzi e un secondo piazzamento, con vista sul titolo. Il merito di Pochettino sta nell’aver accettato gli infortuni (Lloris, Davinson Sánchez, Vertonghen, Dier, Wanyama, Dembélé e Janssen) plasmando un gruppo multiforme capace di schierarsi su sei moduli differenti: 4-3-2-1, 3-5-2, 4-3-1-2, 4-2-3-1, 3-4-2-1, 4-4-2. Sembrano numeri, sono affermazioni di forza: Eriksen è tornato dal Mondiale in Russia carico a pallettoni, Kane ha già segnato 13 reti e il tandem Lucas/Son che gli gravita intorno comincia a dar segni di assimilazione. Per molti, il Tottenham è la miglior squadra in quest’intermezzo invernale di stagione. E c’è già chi parla di DESK. Non li conoscete? Dele, Eriksen, Son e Kane. Sono i quattro tenori che con ogni modulo scendono comunque in campo.
A Liverpool si sogna
Santa Claus è stato benevolo coi tifosi del Liverpool, tanto da regalargli un sogno confezionato sotto l’albero. Per la prima volta, a Natale i bookmakers hanno abbassato le quote sul City vincente (passate a 2,63) decretando i Reds favoriti (1,67). Oltre a fattori di classifica, c’è un cambiamento – impercettibile agli occhi di molti – che ha rinforzato la candidatura del Liverpool come campione d’Inghilterra. Consiste in un accorgimento di Klopp, che se lo scorso anno impiegò il 4-3-3 con Mohamed Salah ad agire sulla destra, oggi prevede un 4-2-3-1 con l’egiziano al centro dell’attacco (contro l’Arsenal, Shaqiri-Firmino-Mané dietro di lui). Una mossa che oltre a migliorare il gioco offensivo prodotto dalla squadra consente di fornire al tecnico tedesco un’ulteriore arma da giocarsi nella faretra.
Klopp all’interno del suo organico ha un’incredibile varietà tecnica, basti pensare all’acquisto estivo di Fabinho dal Monaco: i 45 milioni investiti nel brasiliano sono un investimento sul polimorfismo. Nel Principato Jardim gli insegnò non solo l’arte del difendere da mediano, ma lo provò pure terzino destro e gli fece progressivamente calciare i rigori. Così oggi Klopp può contare su un centrocampista duttile, all’occorrenza terzino destro (anche se tra Alexander-Arnold e Clyne la coperta pare lunga), stesso esperimento riuscito con un James Milner che dal City ha trovato nuova giovinezza a Liverpool. Interno, ala, terzino sinistro indifferentemente ma playmaker inside. C’è anche il suo zampino nelle 48 reti segnate e 8 incassate dai Reds. Non ditelo a Klopp, visto che s’è ampiamente sfogato con la stampa: «We are running a marathon and this is halfway […]. Talking about how many points you are in front at this stage is a game for supporters and journalists».
Possono davvero giocarsela?
Il record offensivo è roba da City o Tottenham, ma dietro il Liverpool non balla e – tra i precedenti 18 vincitori della Premier League – solo otto sono quelli che non avevano il miglior reparto difensivo. Chi incassa meno colpi, tiene fino alla fine: il Liverpool quest’anno è solido, ha lasciato intatta la spina dorsale della squadra che a maggio si stava giocando la finale di Champions League con qualche minima eccezione (su tutti Loris Karius, mix tra sfortuna e sciagura che non impietosì il Real Madrid, spedito in Turchia in prestito). Tra i pali è stato acquistato Alisson dalla Roma incontrata nelle semifinali di Champions, pagato poco più dei 60 milioni investiti per Naby Keita del Lipsia. La retrocessione dello Stoke City ha fornito un pretesto per l’acquisto di Xherdan Shaqiri, intrigante scommessa a prezzo contenuto e alternativa di un certo peso ai tre titolari.
Dall’altro lato del ring c’è il Tottenham, che anziché investire nel mercato ha varato una linea di stretto conservazionismo. Il confronto è reso interessante dal fatto che le gestioni Pochettino e Klopp hanno più o meno gli stessi numeri in termini di entrate derivanti dalle cessioni (281 i Reds, 287 gli Spurs): l’argentino è in carica dall’estate 2014, il tedesco dall’ottobre 2015 eppure quest’ultimo ha avuto 430 milioni investiti nel potenziamento dell’organico. Il collega si “ferma” a soli 324, producendo dunque un sostanziale punto di pareggio sommando pure gli introiti della partecipazione alle coppe europee. Pochettino in altri termini ha sfruttato l’«energía universal» che filosoficamente il mister distingue dalla matrice causalista. Ogni cosa è in sé contenitore di energia positiva, neutra e negativa. Mentre Klopp avrebbe messo insieme i pezzi del puzzle – ha affermato Dejan Lovren – a Londra si studia anche questo per mettere le mani sul titolo.