Nell’era dell’egocentrismo mascherato, in cui perfino la “condivisione” è uno strumento propedeutico a quel rilascio di endorfine che solo un like sa offrire, il compromesso è un’arma parecchio sottovalutata. Se solo fossimo più aperti al confronto, non a quello autoreferenziato dei social, ma a quello crudo con una realtà talmente distante da farci paura, forse il mondo sarebbe un posto migliore. Prendete Juan Guillermo Cuadrado Bello e il suo modo di stare in campo, disorientante come un hangover in spiaggia dopo fiumi di mojito. Prendete poi la Juventus, una delle realtà calcistiche più orientate di sempre. Sono la dimostrazione che anche un assiduo frequentatore della movida e un nerd incallito possono andare d’accordo.
Quasi per caso
Tutto è iniziato un caldo 25 agosto di due anni fa: la Juventus aveva già tre titoli consecutivi in pancia, ma il senso di sazietà era ancora lontano; Cuadrado veniva da un’esperienza deludente al Chelsea, forse perché ancorato ad un’interpretazione di calcio troppo solipsistica per far breccia nelle ruvide terre d’Albione. A fare da intermediario tra le parti Massimiliano Allegri, reduce da uno scudetto e una finale di Champions persa con il Barcellona, eppure ancora etichettato da gran parte della critica come il nuovo arrivato intento a raccogliere i frutti del suo predecessore. L’ombra di Antonio Conte si stagliava sui suoi successi come la mano di un padre su quelli di un figlio d’arte.
L’arrivo di Cuadrado a Torino passa sotto traccia, bollato come una di quelle operazioni last minute fatte più per rinfoltire la rosa che per incrementarne il valore. D’altro canto è l’unico esterno d’attacco in una squadra pensata per evolversi dal 3-5-2 al 4-3-1-2 (fallito l’acquisto di Draxler, la Juve ripiega in extremis su Hernanes e sul colombiano), due moduli che in definitiva sembrano escluderne logicamente l’impiego. In realtà si tratta una mossa fondamentale nel processo di europeizzazione che ha in mente Allegri: l’intento è ultimare l’upgrade del sistema Juve per svincolarsi una volta e per tutte dalle ingenerose etichette del passato. A fare la differenza saranno soltanto il tempo, il coraggio e una buona dose di fortuna.
Un primo timido approccio di coesistenza è il derby di Halloween del 2015, uno Juventus-Torino risolto al 93’ proprio da Cuadrado per il 2-1 finale. Un gol brutto nella forma (il colombiano frana sul cross di Alex Sandro imprimendo uno strano effetto al pallone, che scivola lento in porta più per rabbia che per tecnica) ma denso di significati: quella rete nasce dalla perfetta realizzazione di uno degli schemi d’attacco classici del 3-5-2 contiano, passaggio da esterno ad esterno a tagliare il campo, e frutta la prima della storica serie da 15 vittorie consecutive che consentirà alla Juve di risalire la china dall’undicesima posizione e di scrollarsi di dosso le pressioni di uno dei peggiori inizi di campionato della sua storia. Da lì la legacy lasciata da Conte verrà mescolata con nuove, indipendenti e accattivanti idee.
Al di là dei risvolti fatalistici che quel gol assume, l’esperienza di Cuadrado nel primo anno bianconero oscilla tra alti e bassi specchiandosi nel rendimento complessivo della squadra. Abbiamo già accennato all’equivoco tattico alla base del suo trasferimento, eppure Allegri farà di tutto per plasmare il colombiano al tessuto di una squadra che non è più la stessa dei primi tre scudetti. Cuadrado cresce, cambia, come cambiano i dogmi dei bianconeri, impantanati in una delicata transizione dopo le cessioni di Pirlo, Vidal, Tevez e Llorente.
Allegri nelle prime dieci giornata spazia dal 3-5-2 al 4-3-3, alternative di circostanza al suo canonico 4-3-1-2 che con un Hernanes in grande difficoltà non riesce proprio a decollare. La svolta arriva con il 3-5-2 mascherato (un altro rimando alla transizione passato-futuro) in cui l’esterno di destra è proprio Cuadrado che, sgombro da pensanti licenze difensive con Barzagli sulla stessa linea, ridisegna la squadra con un inedito 4-4-2. Arriveranno 24 successi nelle 25 partite successive alla storica sconfitta contro il Sassuolo e Cuadrado, da uomo di troppo, diventerà una delle chiavi tattiche della remuntada.
Il segreto di Juan Bello
Nella stagione 2015-16 Allegri ha gettato le basi per la vera rivoluzione che si è concretizzata quest’anno, il progetto di una Juve europea, finalmente sganciata dal 3-5-2 e approdata ad un più internazionale 4-2-3-1 in cui Cuadrado è il riferimento alto a destra. Moduli a parte, la sensazione di fondo è che in questi anni l’operato del tecnico livornese si sia orientato, come ben analizza Fabio Barcellona su “Ultimo Uomo”, più su un’analisi induttiva che deduttiva della formula vincente. Allegri ha compreso di non poter insistere sulla sua idea di calcio, fondata sulla centralità del trequartista, e ha utilizzato le risorse a disposizione assemblandole al meglio. Una coesistenza ricercata e non imposta, fatta di prove, esperimenti e fallimenti del caso. Cuadrado, probabilmente, rappresenta l’esempio più evidente di questo approccio mite, basato sulla mediazione.
C’è un dato su tutti che esprime la metamorfosi cui è andato incontro il nativo di Necoclì, e riguarda la media di dribbling riusciti per incontro. Se nell’anno al Lecce ha sbaragliato la concorrenza vincendo la classifica totale di dribbling riusciti in tutta la Serie A, Cuadrado ha poi progressivamente placato la tipica indole sudamericana a partire dalla sua esperienza a Firenze: in maglia viola è passato da 3,7 a 3,3 dribbling a partita nell’arco di due stagioni, con un nuovo exploit di 4,8 nell’annata divisa tra Fiorentina e Chelsea. Nell’anno del primo scudetto bianconero si è assestato su una media di 2,7 dribbling ad incontro, mentre adesso ne effettua 1,7 ogni 90 minuti. Un trend in netto calo che dice molto sulle rinunce e poco sull’effettivo miglioramento di un giocatore che da esteta solitario del pallone è diventato quello di cui la Juve aveva bisogno: Cuadrado è una pedina anomala, all’apparenza incompatibile con il sistema geometrico che lo avvolge, ma che ha saputo disciplinarsi aprendo le frontiere ad una nuova interpretazione del calcio “joga bonito”, in cui anche la fase difensiva (quella mal praticata sotto la gestione di Cosmi e Montella) gioca la sua parte. La sua è un’imprevedibilità per certi versi razionalizzata, perché circoscritta a specifici confini.
Contraddizioni
Cuadrado è ancora uno di quei giocatori che ti fa innamorare quando accarezza il pallone, uno di quelli che vive il calcio in maniera primordiale come giocasse sulla spiaggia al tramonto. Ma è anche altro: uno che sconfessa lo stereotipo, che è utile e rispondente al contesto che l’ha accolto. Te l’aspetteresti al chiosco con un cocktail in mano, a dimenarsi sulle note di Despacito insieme all’amico Muriel (l’ha detto lui stesso, “i gol sono una scusa per ballare”). Invece è a casa a fare i compiti di matematica con il sedere incollato su una sedia.
E’ difficile stabilire con esattezza il momento in cui Cuadrado sia diventato effettivamente parte integrante delle idee di Allegri. Ancora più difficile stabilire se sia stato il funambolico esterno colombiano a rendere la Juventus una creatura più disinibita o se, viceversa, sia stata la Juve a fare di Cuadrado l’ennesimo ingranaggio di un orologio che spacca il millesimo. Fatto sta che il legame procede a gonfie vele come testimoniano i 20 milioni versati al Chelsea per il riscatto del cartellino. La verità, come spesso accade, sta nel mezzo e risponde alle esigenze del compromesso.
Piccola nota a margine. Cuadrado e l’ex compagno Pogba, uno dei pochi che nella stagione 2015/16 lo superava nella graduatoria dei dribbling, giocheranno insieme il 24 giugno all’Estadio Atanasio Girardot di Medellìn nell’amichevole di beneficenza organizzata dal colombiano in favore della sua comunità. Un gran cuore oltre i successi e una crescita impressionante.