La crasi che ha generato un neologismo molto in voga in ambito calcistico, un po’ meno tra chi non prova affetto nei confronti del pallone, non si deve ad un luminare dell’Accademia della Crusca. Né tanto meno ad un ragazzino che, armato di una logica a suo modo coerente, ha coniato un lemma banale quanto straripante nella sua forza semantica. Il primo a sdoganare l’apodos Pavoloso è stato Mattia Perin, che lo ha diffuso a suon di hashtag e di retweet nei meandri fagocitanti dei social network . Un mondo parallelo in cui basta poco per essere masticati e ancor meno per vedersi cucito addosso lo status di fenomeno virale.
L’instabile corrispondenza tra virtuale e reale, nel caso di Leonardo Pavoletti, assume un’insolita dose di autenticità. Perché l’hype percepito e metabolizzato sul web è l’esatta riproposizione del modo in cui lo stesso Leonardo sta vivendo la sua favola. Senza alterazioni, in un legame diretto che ricongiunge stomaco, testa e piedi. Lo stupore è genuino, tanto per chi lo osserva domenica dopo domenica, quanto per lui, sempre più indispensabile nel Genoa che lo ha lanciato nel calcio dei grandi. I filtri lasciateli ad altri, l’istantanea di Pavoletti è bella così com’è.
GLI INIZI
Leo nasce a Livorno il 26 novembre 1988, col sorriso di una città ridente che ne riflette in pieno l’animo genuino e verace. Con un padre maestro di tennis il percorso sportivo inizia sulla polverosa terra rossa e non sull’erba, con in mano una racchetta e una deformante tendenza all’egocentrismo, tipico vezzo di chi è costretto a far convivere la competizione con la solitudine. La transizione da uno sport individuale ad uno di squadra risulta difficile da decifrare per il Pavoletti bambino: ‹‹Durante le mie prime esperienze col calcio gli altri volevano sempre la palla e la cosa mi infastidiva. Lentamente è cresciuta una strana voglia. Al primo allenamento l’allenatore mi ha messo in difesa ma ho subito preso palla puntando alla porta avversaria. Da quell’istante ho sempre giocato in attacco››. E lì è rimasto, disegnando un sentiero lento e frastagliato, che è giunto a destinazione colpevolmente in ritardo.
Gli esordi con l’amaranto dell’Armando Picchi, formazione della sua Livorno, li ricorda a fatica. Non tanto per il tempo trascorso, quanto per i dubbi fitti e mai risolti su una carriera, quella da calciatore professionista, che al pari del web è capace di proiettarti dal paradiso all’inferno in un istante: ‹‹Siamo pagati bene, ma quando finisci sei accantonato. E non è semplice reinventarsi dopo che per trent’anni hai solo giocato a pallone››. Nutre fin da giovane l’idea di una prospettiva alternativa al calcio, pensando più di una volta di iscriversi all’università o di trovarsi un lavoro stabile, ma quel fascinoso mondo, dal quale non verrà mai pienamente sedotto – non guarda neanche le partite in tv -, esercita un’attrazione magnetica non indifferente. Leo impara a convivere con le sue incertezze, consapevole dei rischi, preservando una lucidità che lo protegge dalle facili illusioni ma che al tempo stesso non gli consente mai di lasciarsi pienamente andare. L’estenuante trafila tra i campi della periferia italiana si consuma tra le ansie di un lacerante limbo.
L’antidoto che dirada ogni scetticismo è l’istintiva predisposizione al gol. Pavoletti segna in tutti i modi. Di testa, di destro, di sinistro, in maniera sporca come soltanto i gli attaccanti più famelici sanno fare, ma anche con discreta eleganza, la stessa che trasuda da quel rovescio a due mani, ereditato dal padre sulla terra battuta. Le due esperienze in C2, l’attuale Lega Pro Seconda Divisione, con Viareggio e Pavia valgono l’interessamento del Sassuolo che lo acquista e lo gira in prestito alla Juve Stabia, in Prima Divisione. Pavoletti gioca poco a causa di un infortunio e dopo appena qualche mese è costretto a scendere nuovamente di categoria, nel Casale. Nell’estate del 2011 passa alla Virtus Lanciano e il limbo prende le sembianze di un’ascesa.
E’ il 10 giugno dell’anno seguente quando al Comunale di Trapani, la Virtus Lanciano si gioca le sorti di un’intera stagione in un singolo spareggio, valido per i play-off. L’inizio è quanto di peggio possa aspettarsi: Gambino dopo appena 55 secondi condanna gli abbruzzesi che rimarranno in dieci a causa dell’espulsione di Amenta, reo di un contatto poco ortodosso pochi minuti più tardi. Sul finire del primo tempo Pavoletti accende una reazione monumentale, segnando il gol – una bordata da fuori area di controbalzo – che rimette i suoi in carreggiata. Trapani si scioglie, la Virtus Lanciano dilaga chiudendo poi la partita sul 3-1. Pavoletti si laurea capocannoniere della competizione con 16 reti, mentre i rossoneri guadagnano la prima storica promozione in Serie B. Dall’inferno al paradiso, dicevamo.
La metamorfosi di Pavoletti sta tutta lì. Una transizione mentale ancor prima che professionale in cui si consolida la svolta del suo upgrade calcistico. L’autostima di Leo si gonfia a dismisura, esattamente come il girovita di Mou, l’animale domestico – si fa per dire – che alleva nel suo giardino. Mou è un maiale vietnamita regalatogli dall’ex fidanzata di suo fratello durante l’esperienza a Lanciano, che oggi pesa più di un quintale. Nessuno sgarbo allo Special One, Mou è la traduzione dal vietnamita di maiale e funge sostanzialmente da talismano: dopo la promozione in B con il Lanciano ne arriverà subito un’altra con il Sassuolo, questa volta destinazione Serie A.
SASSUOLO E VARESE, CHIAROSCURO
L’annata con gli emiliani si macchia però di una crisi. Dopo aver segnato cinque gol nelle prime tre partite, Leo si smarrisce, perdendo progressivamente quel contatto viscerale con la porta che fino ad allora l’aveva sempre accompagnato, anche al netto di ripensamenti e interrogativi circa la strada del professionismo. Non riesce a gestire emotivamente la concorrenza di Boakye, perde così terreno nelle gerarchie di Di Franscesco, arenandosi sconfortato in panchina. I periodi di astinenza capitano anche ai grandi attaccanti, figurarsi ad un giovane dalle belle speranze che ha ancora tutto da dimostrare. E’ però un’ingiusta squalifica per doping a complicare tragicamente la situazione: Leo risulta positivo al tuaminoeptano, sostanza assunta attraverso un comunissimo decongestionante nasale. La sentenza del giudice sportivo recita 40 giorni di squalifica. Pavoletti ribolle dentro. L’occasione della rivalsa arriva presto al suo ritorno contro l’Ascoli, in piena lotta per la promozione. Le prime due conclusioni in porta si frantumano contro un palo prima e contro la traversa poi. Per Leo è un incubo, ma trova subito le energie per il riscatto, all’interno della stessa maledetta partita. La terza occasione è quella buona, quella che vale il gol e, soprattutto, l’ennesimo turning point motivazionale: ‹‹Dopo quel periodo negativo, tirai una linea. Diventai un’altra persona. Non mi preoccupavo più della concorrenza. Giocavo cinque minuti? E in quei cinque minuti davo tutto. E tornai a fare gol››. Dei frutti di quella svolta ne beneficerà, un anno più tardi, il Varese.
Giunto in terra lombarda dopo la promozione col Sassuolo, intorno a Pavoletti si condensano le aspettative per un’altra stagione di successo. La squadra però fatica più del previsto, e una serie di risultati negativi costituisce fin da subito il preludio di un campionato difficile. Non per Leonardo però, che giornata dopo giornata mette in fila gol di un certo peso specifico. Gli ultimi quattro, segnati contro il Novara nel doppio spareggio play-out, consentono al Varese di restare in Serie B e consacrano Pavoletti come l’uomo copertina della salvezza, con 24 reti all’attivo, miglior bottino della sua carriera. ‹‹Per ora è un saluto, poi nel futuro non si sa mai. Se mi compra il Varese sarò felice di tornare››, commenta dopo aver conquistato la permanenza nella serie cadetta. Di fatto i bianco-rossi lo riscattano dal Sassuolo, ma nella stessa sessione di mercato, soltanto due giorni più tardi, gli emiliani esercitano il diritto di controriscatto portandolo lontano da una piazza con la quale Leonardo ha stretto un legame simbiotico e mai dimenticato. Il 13 dicembre del 2014 Pavoletti segna il suo primo gol in serie A, rendendo meno amara la sconfitta dei nero-verdi nel 2-1 contro il Palermo. Si tratta dell’unica gioia in un avvio di stagione interlocutorio: lui relegato in panchina per la prima parte del campionato – saranno nove le presenze totali – il Varese, senza il suo bomber, costretto a fare i conti con un’indigesta retrocessione in Lega Pro. Al termine di quella stagione Pavoletti avrà già affrontato l’ennesimo salto di qualità, mentre la società lombarda, costretta al fallimento, subirà la radiazione dal calcio professionistico, ripartendo così dal campionato d’Eccellenza. L’arrivo a Marassi il 30 gennaio del 2015 è di fatto la ricompensa dell’attesa. Sì perché Leonardo ha imparato ad aspettare, a fiutare il momento giusto per rompere il silenzio, ispessendo quella guaina che lo ha sempre protetto dalle delusioni.
PAVOLETTI, OGGI
E’ un paradosso che con il Sassuolo, terra votata alla formazione dei talenti nostrani, Pavoletti non abbia mai stretto un legame effettivamente produttivo. E che soltanto a Genova, sponda rosso-blu, all’età di ventisette anni sia diventato finalmente uomo. Dopo due mesi di ambientamento nella nuova piazza, Pavoletti abbraccia finalmente la sua occasione. La sfrutta senza indugi, segnando 6 volte in appena dieci partite disputate, per una media spaventosa di un gol ogni 92 minuti.
Il segreto di un debutto da record, ancora una volta, è la testa ancor prima dei piedi. Il successo risiede in un umile periodo di apprendistato alle spalle di Borriello, prima punta designata nello scacchiere di Gasperini, dal quale Leo ha tratto preziosi insegnamenti: ‹‹I primi mesi sono stati duri, non trovavo spazio ed ero abituato a giocare in modo diverso. In partitella ho iniziato a guardare i movimenti di Borriello, a cercare di imitarlo. Ad esempio, nel movimento a mezzaluna per ricevere palla››, ha dichiarato il livornese. Emulazione più che imitazione: Pavoletti parte da Borriello per creare un set di movimenti e soluzioni autonome, in cui c’è tanto della malizia affinata in quel vorticoso girovagare tra i campi della periferia.
Passato e presente si legano, formando un composto esplosivo: la stagione 2015/16 è quella del massimo exploit. Segna 14 gol in 25 presenze, nonostante alcune squalifiche e qualche infortunio di troppo, risultando il miglior marcatore italiano del campionato. Tra le marcature quelle che hanno un peso evocativo più forte sono le reti segnate alla Sampdoria, in due differenti edizioni del derby cittadino. Marassi lo venera, tributandogli applausi che soltanto ai grandi calciatori, passati per la città della Lanterna, erano stati rivolti. L’aurea di Pavoloso si estende a tal punto da indurre Conte a meditare su una possibile inclusione nella spedizione francese. L’ex tecnico della nazionale, dopo averlo convocato a maggio per lo stage di preparazione all’Europeo, decide però di escluderlo dalla lista dei preconvocati.
La genesi dell’appellativo Pavoloso si colloca all’interno di quella stagione: è un Genoa-Verona del girone d’andata, Leonardo entra e segna regalando al Grifone una vittoria dura, sudata, ottenuta a immagine e somiglianza del suo centravanti. Mattia Perin, al rientro negli spogliatoi, lo accoglie a braccia aperte, lo invoca con dolcezza. Scoppia la Pavoloso mania, riprodotta poi sui social con una foto su Instagram che ritrae lo stesso Leonardo accompagnato da questo insolito vezzeggiativo. Pavoloso è dolce, caldo, rincuorante, come un gol che vale i tre punti. O come il suo sorriso, accogliente quanto il mare della sua Livorno.
A pensarci bene, il fluire delle onde è quasi una magia, tanto a Livorno quanto altrove. Il mare si muove, eppure a suo modo resta fermo in quel modo dei flutti di affiorare in superficie e di piombare giù negli abissi. A fronte dell’apparente immobilismo delle acque, c’è però un senso di vorticoso trasformismo interno per chi le osserva: ‹‹Sono sempre stato uno che metteva più carattere degli altri. Gli ostacoli che ho incontrato li ho superati soprattutto con la testa. Se mi fossi buttato giù, non avrei più combinato nulla, invece ho sempre affrontato le cose rimanendo lucido››. Leonardo non si è lasciato mai inghiottire dalle maree, le ha sempre rispettate, trovando con pacatezza la soluzione giusta per tornare a respirare. La parola chiave è lucidità, quella con cui ha affrontato le ansie adolescenziali sul proprio futuro, quella con cui ha superato le ombre di Sassuolo, tra panchine, concorrenza e un insolito caso di doping. La stessa che gli consente di non perdersi in facili illusioni, e di restare, anche in un mondo fagocitante come quello del calcio, sempre con i piedi ben piantati per terra. Non è un caso che il suo libro preferito sia “Il vecchio e il mare” di Ernest Hemingway. Una storia di acque crudeli e di perseveranza, che rendono sacro il valore dell’attesa. Un racconto in cui la lucidità è l’arma più grande.
D’altronde è proprio quella che serve anche ad un grande attaccante. Pavoletti la coltiva durante ogni partita. Dopo minuti di digiuno, con l’indice teso rivolto verso uno specchio d’erba, a segnare il punto e l’istante in cui il suo corpo impatterà il pallone. Di solito lo stadio esplode poco dopo, lui accoglie un altro boato. Lo incamera nel cuore e nella testa, mentre il volto sfuma in un sorriso.