Cosa ci lascia questo derby d’Italia? La risposta è in cinque (s)punti.
Al di là della tradizionale rivalità, la sfida di domenica sera tra Juventus e Inter costituiva per entrambe uno snodo fondamentale della stagione: la cartina di tornasole per valutare se proseguire sulla strada tracciata o, eventualmente, raddrizzare il tiro. La Juventus era chiamata a verificare la bontà del suo nuovo assetto tattico contro una rivale in grande crescita, reduce da sette vittorie consecutive e lanciata verso i piani alti della classifica; l’Inter, per converso, voleva testare la consistenza dell’upgrade apportato da Pioli contro un avversario, dati alla mano, praticamente imbattibile tra le mura amiche e destinato, salvo clamorosi imprevisti, a mettere ancora una volta la parola fine sul discorso scudetto.
Per certi versi, entrambe le squadre hanno ottenuto le risposte che cercavano.
Cambiare tutto affinché nulla cambi
La metamorfosi dei bianconeri, voluta da Allegri e sostenuta dal collegio dei senatori dopo la sconfitta di Firenze, sembra un fedele tributo alla filosofia del Gattopardo. Il passaggio dal 3-5-2 di matrice contiana ad un 4-2-3-1 decisamente più sbilanciato va letto nell’ottica di una rivisitazione necessaria per poter stare al passo con le proprie ambizioni: constatata la saturazione di un sistema vincente ma ormai logoro, la Juventus ha cambiato pelle per non dare vantaggio alle concorrenti – Genoa e Fiorentina per ultime hanno sdoganato il know-how del “battere la Juve e vivere felici” – e per allinearsi ad uno stile di gioco più europeo in vista delle insidiose notti di Champions.
Dopo tre partite di rodaggio, Allegri ha insistito sul nuovo modulo anche contro l’Inter senza alterarne i principi: la Juve si è schierata a quattro in difesa riproponendo il doble pivote di qualità con Pjanic e Khedira in mediana, e il tridente composto da Mandzukic e Cuadrado ai lati e Dybala nel mezzo, alle spalle di Higuain. Un tempo si parlava di “4-2-fantasia”, ma l’approccio con cui i bianconeri hanno interpretato le ultime uscite lascia ben poco all’immaginazione. Le nuove vie di sbocco in fase di costruzione con Pjanic e Khedira pronti ad affiancare Bonucci, la ciclicità con cui il bosniaco e il tedesco si alternano nell’impostare e nell’inserirsi, la capacità di Mandzukic e Cuadrado di stringere orizzontalmente per lasciare spazio ai terzini, i movimenti a pendolo di Dybala e Higuain: è tutto codificato fino a spaccare il millesimo, nel solco di un insolito paradosso.
L’attacco è la miglior difesa
Suonerà strano, ma Allegri ha scelto un modulo teoricamente più offensivo con l’intento di restituire sicurezza al reparto arretrato: la disposizione delle pedine in campo con il 4-2-3-1 non soltanto consente una migliore copertura degli spazi posizionali, ma soprattutto agevola il recupero del pallone lontano dalla porta, in pieno ossequio a quel caposaldo del gegenpressing che è la correlazione strutturale tra le fasi d’attacco e quelle di difesa. Ora la Juve non aspetta ma aggredisce, fa in modo che la sfera resti quanto più vicina all’area avversaria, rendendosi potenzialmente più pericolosa davanti e più sicura dietro.
Risulta abbastanza chiaro quanto il nuovo assetto richieda un dispendio di energie nettamente superiore rispetto al 3-5-2, perché basato su un atteggiamento proattivo e non più puramente attendista. A rigor di logica è difficile pensare che quel finissimo meccanismo di rotazioni ad incastro possa lavorare senza sosta e sovraritmo per 90 minuti: lo stesso Allegri, nella sfida contro i nerazzurri, ha cambiato le carte in tavola virando verso soluzioni più statiche quando si è reso conto che l’Inter stava premendo con insistenza dalle parti di Buffon. Gli ingressi di Marchisio e di Rugani hanno riequilibrato il sistema, questa volta sì in un 3-5-2 di contenimento, pensato non come paradigma assoluto, ma come semplice strumento per proteggere il vantaggio.
D’altronde i 16 gol subiti in 18 partite con il vecchio assetto sono stati un campanello d’allarme evidente, se non addirittura la causa scatenante di una rivoluzione che finora ha pagato ampi dividendi: un’imbattibilità che dura da 270 minuti, iniziata guarda caso dopo l’apocalisse dell’Artemio Franchi.
Che poi il perno della nuova filosofia bianconera sia un centravanti dall’innata predisposizione alla chiusura difensiva, spiega il paradosso, rendendolo più chiaro.
L’ariete croato
La chiave tattica del 4-2-3-1, senza giri di parole, è Mario Mandzukic. L’attaccante croato è stato schierato come riferimento a sinistra del tridente a supporto di Higuain, non tanto come ulteriore risorsa offensiva, quanto per le sue doti di recupero e pressione sviscerate in sede di non possesso. La grande intuizione di Allegri è stata proprio questa: aver ritagliato uno spazio ad un centravanti tutt’altro che prolifico, in una porzione di campo in cui, lontano dalla porta, può far valere tutta la garra di cui è dotato.
Anche contro l’Inter il lavoro svolto da Mandzukic è stato encomiabile: due tackles, un intercetto e due recuperi difensivi, effettuati proprio contro Candreva sulla sua fascia di competenza. L’esterno nerazzurro ha perso uno dei duelli chiave del match, ingabbiato dai raddoppi di Mandzukic e Alex Sandro, la catena che meglio condensa il dinamismo che sta alla base dei nuovi precetti dei bianconeri.
Mandzukic non è soltanto un utilissimo filtro, ma garantisce quantità e qualità anche durante la costruzione della manovra: sì, perché lanciar lungo confidando sulla spizzata del croato, in una zona in cui solitamente si trova a duellare contro un avversario meno prestante fisicamente, è una soluzione da non sottovalutare, specie se gli avversari decidono di schermare la mediana ostacolando l’impostazione via terra.
L’unica debolezza riguarda il rischio di overheating, vale a dire il pericolo di surriscaldamento: più volte Mandzukic ha dimostrato di non possedere nervi saldissimi, e di non cogliere il momento in cui è necessario allentare la presa, viaggiando sempre al di sopra delle proprie possibilità. Di fatto si tratta di un problema da revisionare perché la forza del 4-2-3-1 è sì l’aggressività, ma anche una ferrea disciplina tattica. Ecco, spesso Mandzukic eccede nell’una e pecca nell’altra, come quando si avventura troppo in avanti per inseguire il pallone, o ripiega con scelleratezza in area di rigore.
In una gara decisa dagli episodi, quell’entrata su Icardi poteva costar caro.
Sapersi adattare
Così come Allegri, anche Pioli ha messo mano allo scacchiere tattico ridisegnando la sua squadra con il 3-4-2-1 in luogo del più canonico 4-2-3-1. La trasformazione, in questo caso, va interpretata più come un accorgimento limitato alla singola partita – anche la Lazio aveva proposto uno schieramento simile contro i bianconeri – che come una strada da seguire per il futuro, anche perché le sette vittorie consecutive prima della sconfitta dello Stadium avevano fornito una controprova di tutto rispetto all’efficacia del sistema nerazzurro. Pioli ha deciso di cambiare per provare a mettere in risalto le difficoltà la Juventus, alle prese con una transizione delicata, e l’ha fatto rispolverando uno schieramento per certi versi simile a quello utilizzato negli ultimi anni dai bianconeri.
Essenzialmente la scelta di giocare a tre dietro, posizionando Murillo in marcatura su Mandzukic, era stata pensata per aumentare le chance di vittoria sui duelli aerei in quella porzione di campo. Gagliardini, dirottato sul settore di centro-destra, doveva svolgere funzione di sostegno in marcatura del croato soprattutto nelle fasi statiche e in prevenzione sulle palle lunghe. Joao Mario e Perisic erano chiamati ad avanzare in pressione sui difensori avversari, lasciando Brozovic e Gagliardini in costante marcatura di Khedira e Pjanic. L’intenzione di Pioli era quella di aggredire alta la Juve in modo da costringerla ad alzare la palla ed innescare all’occorrenza il dispositivo di anticipo su Mandzukic, neutralizzando in potenza ogni tentativo di disimpegno fluido dei bianconeri. Il numero 17 però, dall’alto dei sette duelli aerei vinti a fronte dei due di Murillo, ha mandato in fumo tutti i piani, considerando che il baricentro alto dell’Inter lasciava sguarniti gli spazi alle spalle del proprio centrocampo: la terra degli inserimenti bianconeri, con Khedira in pericolosa ricezione sulle sponde del croato e Dybala pienamente in grado di puntare la porta, pronto a concludere lui stesso a o servire i tagli di Higuain.
Il futuro
I numerosi dispositivi tattici costruiti dagli allenatori hanno dato vita ad una partita non sempre spettacolare, giocata più sul filo delle consegne che delle invenzioni. Dopo un primo tempo esuberante in cui le squadre hanno cercato di far breccia approfittando degli errori reciproci, la ripresa è stata il trionfo degli adeguamenti, delle contromosse, e, vien da sé, della stanchezza. In una gara non brillante ha vinto la squadra che ha prodotto più palle gol e che è riuscita a capitalizzare al meglio le poche occasioni disponibili. Le indicazioni per il futuro, tanto per Allegri che per Pioli, sono incoraggianti: la Juve ha superato la prova più difficile nel percorso di assestamento richiesto dalla nuova transizione tattica, l’Inter ha dimostrato di potersela giocare alla pari contro il meglio che il calcio italiano ha da offrire. Entrambe hanno saputo cambiare all’occorrenza, in via definitiva o per pura necessità. E nonostante le metamorfosi, o proprio grazie ad esse, hanno costruito un’invidiabile trama di equilibri. Nel gioco, nei propositi e nelle idee.