Nel linguaggio comune il termine “potenza” indica diversi significati. Genericamente la potenza è la capacità di dominio riconducibile ad un determinato organismo, declinabile a sua volta in un’infinità di campi: potenza in senso fisico, come vigore corporeo; potenza in senso politico, in riferimento ai fattori che determinano una condizione predominante; potenza in senso lato, come facoltà di agire efficacemente sulla realtà, sulla volontà, sul pensiero. Indipendentemente dall’ambito, l’idea resa è quella del controllo, la funzione espletata è un’alterazione coattiva degli equilibri. Nel linguaggio filosofico il concetto di potenza assume un’ulteriore sfumatura: si ridefinisce in rapporto a quello di atto, finendo per assumere l’imprinting della possibilità. Essere in potenza è un modo di esistere che ingloba il senso della proiezione. Essere in potenza significa aprire uno squarcio verso il futuro.
Luis Muriel è potenza in ogni sua forma. Nei suoi muscoli, ipertrofici ed esplosivi, che alimentano insostenibili paragoni. Nella tecnica annichilente di chi sa trattare il pallone come se fosse il naturale prolungamento degli arti. Nella facoltà di deformare il corso di una partita a proprio piacimento, quasi fosse la cosa più semplice del mondo. Ma l’accezione di potenza che identifica Muriel più di qualunque altra, è quella che sconfina nel campo della possibilità.
Negli ultimi cinque anni trascorsi in Italia – da quando è arrivato a Lecce transitando dal Friuli – Muriel ha camminato su un instabile limbo. Ha sedotto, finendo per illudere, ha deluso, rintanandosi nel confortevole guscio di una promessa mancata, incapace di adeguarsi alle aspettative. Il binario singhiozzante seduzione-illusione-delusione è il confine risoluto e mai valicato tra la potenza e l’atto. Ma, seppur lentamente e con un approccio rigorosamente cauto, le cose stanno cambiando.
E’ possibile individuare diversi periodi nel percorso di maturazione di Luis Muriel. Una fase embrionale, in cui ha costruito le aspettative, una fase transitoria di oscillazione tra la potenza e la realizzazione, e una fase finale nella quale è diventato – si spera – atto.
FASE EMBRIONALE
Luis Muriel nasce a Santo Tomás, nel cuore del dipartimento Atlantico della Colombia, il 16 aprile del 1991. La sua vita scorre lenta, sinuosa come le anse del Rio Magdalena, il fiume che da sud a nord seziona il paese liberandosi con un maestoso delta sulle cristalline acque dei Caraibi. Con fare affannato strilla per le strade della sua città in cerca di acquirenti delle deliziose frittelle preparate dalla nonna, aiuta lo zio a controllare i biglietti dei viaggiatori sui pullman e – se gli resta del tempo – vende i biglietti della lotteria. Nel caotico andirivieni del barrio di Santo Tomás si tiene impegnato come può, pregando, tra una faccenda e l’altra, che suo padre torni a casa sano e salvo dopo un’estenuante giornata di lavoro sul taxi di famiglia: gli avventori delle corse non sono sempre persone raccomandabili, basta un attimo per trovarsi a bordo un poco di buono disposto a tutto pur di alleggerire il portafogli del conducente. Luis sarà anche giovane, ma sa come funziona la vita tra le anse della Magdalena.
Le partite a domino, le albe seduto sul vialetto di casa, la musica, i balli sono l’altra faccia di un’esistenza sconnessa. Luis apprezza la semplicità della sua terra. L’esuberanza dei colori, vivi e penetranti, restituisce un malinconico senso di abbondanza laddove gli stenti trovano conforto nell’immaginazione. Gli spazi in cui è lecito sognare sono i polverosi campi della periferia, quelli sui quali Luis tocca il pallone con una naturalezza fuori dal comune. La famiglia ne è consapevole e con lungimiranza – e una buona dose di coraggio -investe i risparmi sul suo talento acconsentendo al trasferimento presso l’Atlético Junior, in attesa di una redenzione. La città di Barranquilla, sede della prima squadra di Muriel, è nota come la Porta d’oro della Colombia. Si tratta del primo porto marittimo e fluviale della nazione, culla dello scambio e delle transazioni commerciali. Dal 2001 diventa anche la Porta d’Oro di Luis, quella che delinea una delicata transizione da ragazzo a uomo. In America Latina si cresce presto, più per necessità che per inclinazione genetica.
Allo Junior Luis si innamora del calcio e nel più genuino slancio generazionale si immedesima negli idoli del suo tempo. Uno, il più vicino per ambiente e facilità di emulazione, è tale Ivan Valenciano, leggendario centravanti nativo di Barranquilla che con i suoi 168 gol si è consegnato alla storia come miglior marcatore dello Junior, l’altro, discretamente più conosciuto, è Luís Nazário de Lima, o, più comunemente, Ronaldo. Se dal primo – passato tra l’altro anche in Italia senza lasciar traccia in una grigia esperienza a Bergamo nel 92’ – prende in prestito il soprannome, dall’altro assorbe le fattezze e il disarmante connubio di potenza e controllo, iconico quanto irripetibile marchio di fabbrica. Così, quando Luis fa ritorno a casa, tra i vicoli di Santo Tomás tutti lo invocano come “O Valenciano”. Lui sorride, si compiace dell’accostamento, ma il cuore è votato interamente a “O Fenômeno”.
Il paragone con Ronaldo, nel bene e nel male, costituirà una costante della sua carriera. La struttura muscolare sembra quasi clonata e riversata dal corpo dell’uno a quello dell’altro. Così come la facoltà di quei muscoli di esplodere in accelerazioni fulminee, capaci di stendere qualsiasi tentativo di opposizione da parte del difensore. L’altra somiglianza riguarda l’attitudine al dribbling, espressione di un bagaglio tecnico quasi ossimorico rispetto alla massa degli arti inferiori. Il punto di massima convergenza riguarda il modo in cui forza fisica e skillset tecnico si combinano in entrambi generando una formula chimica che non ha nessun altro precedente. Il primo a riconoscere e legittimare il paragone tra Muriel e Ronaldo è stato Serse Cosmi durante l’annata a Lecce: ‹‹Sai chi segnava così tutte le domeniche? Ronaldo›› tuonava Serse con fare paterno dopo un bellissimo gol di Muriel a San Siro. Ma Luis, un po’ per timidezza e per modestia al cospetto della sua leggenda, ammorbidiva prontamente i toni: ‹‹Cosa ho io del più grande? Forse qualche movenza, l’accelerazione palla al piede, ma poi?››. All’insegna della timidezza deve essere avvenuto anche il primo incontro tra i due, in un Colombia-Brasile di sedici anni fa: Muriel, ad appena nove anni, si trovava a bordo campo in qualità di raccattapalle quando la sua mano sfiorò appena quella di Ronaldo, intento a lasciare il terreno di gioco al termine della partita. Stesse sensazioni di inadeguatezza giusto un anno fa quando per la prima volta è riuscito a scattare una foto con il suo idolo d’infanzia: fu Cuadrado il tramite fondamentale per vincere l’imbarazzo e ad approcciarsi con estrema riverenza al Fenomeno. ‹‹A me non usciva la voce per chiederglielo, volevo dirgli mille cose e non spiccicai parola. Bocca chiusa, come un bambino di tre anni››, queste le parole di Muriel che restituiscono in pieno la solennità del momento.
Durante gli anni allo Junior, Luis incanta, segna e si ritaglia una reputazione di rilievo tra i reclutatori nazionali. All’età di dodici anni sarebbe anche andato volentieri all’Escuela Barranquilla, uno dei principali settori giovanili della sua zona, se non fosse rimasto vittima di un tranello tanto astuto quanto spietato: per completare il trasferimento nella nuova squadra serviva il nullaosta della società che deteneva il suo cartellino, così si recò con suo padre alla sede dello Junior per ottemperare agli oneri burocratici. Il dirigente dello Junior, convinto di tenere con sé Luis, disse che avrebbe reso il cartellino in cambio dell’ultimo cd di Ivan Villazon. Per le casse familiari, la spesa di 40 mila pesos destinati al disco nuovo di zecca di un discutibile cantante del vallenato (tipico genere musicale della costa caraibica della Colombia), si profilava come un esborso decisamente fraudolento: richiesta respinta al mittente. Senza mettere mano al portafogli, Luis rimane allo Junior fino al 2009, quando il Deportivo Cali lo preleva e lo fa esordire nella massima serie. I nove gol in undici presenze nella sola Apertura, stimolano il finissimo e rodato olfatto dei reclutatori dell’Udinese che con appena un milione e mezzo di euro perfezionano il transatlantico destinazione Europa. Luis è di fatto un tesserato dell’establishment della famiglia Pozzo –prima di approdare all’Udinese stazionerà un anno al Granada anche lui, come Valenciano, senza lasciar traccia- con tutte le conseguenze del caso.
PERIODO DI TRANSIZIONE
L’impatto con il calcio d’Oltreoceano, come prevedibile, è traumatico: ‹‹Prima prendevo tutto alla leggera, d’altronde da noi è sempre festa. L’arrivo in Italia mi ha fatto crescere parecchio. In campo invece il pallone non lo aspetto più: qui il calcio è diverso, contano molto la tattica, la forma fisica e il sacrificio››, questa la chiara esposizione di Muriel sulla transizione verso un calcio meno viscerale e decisamente più disciplinato. Luis non può più attendere che il turning point all’interno di una partita si materializzi all’improvviso – un po’ come faceva l’istrionico Valenciano – ma deve crearselo da solo in una costante tensione produttiva. Dopo l’interlocutoria parentesi al Granada viene acquistato dal Lecce nell’agosto del 2011 e lì resta per tutta la stagione, anche a fronte di una nuova acquisizione da parte dell’Udinese esercitata nel gennaio dell’anno seguente. Il contesto tattico creato da Serse Cosmi è un tripudio di fantasia tipicamente sudamericana, in cui Luis intravede un rimando diretto agli insegnamenti di Alvaro Nunes, suo vecchio allenatore in Colombia: ‹‹Vai e divertiti, ma con responsabilità. Sono cresciuto con questo motto, ogni volta che prendevo palla volevo fare qualche numero. E se mi diverto io in campo, si divertono anche i tifosi››. Se la distanza con Santo Tomás è presto azzerata grazie ad un modello di calcio esuberante – la sinergia con l’amico e compagno Cuadrado è un piacere per gli occhi – i dividendi raccolti sono però piuttosto carenti. Il Lecce diverte ma non fa punti e retrocede presto in Serie B. Luis abbandona il caldo del Salento e il passionale approccio di Cosmi per abbracciare il freddo di Udine e l’asettico metodo di Guidolin.
Si può dire che Muriel abbia lasciato definitivamente la Colombia quando ha compiuto il suo passaggio in terra friulana. E’ qui che inizia un lento e delicato percorso di transizione, i cui effetti si ricollegano all’oscillazione tra potenza e atto. Muriel è arrivato all’Udinese con un ingombrante quanto legittimo carico di aspettative, che asseconda e disattende con schizofrenica incostanza: proprio quando sembra essere arrivato il momento della consacrazione, Luis fa tre passi indietro, si chiude nel suo guscio e fa perdere le sue tracce. Il punto di massima involuzione lo raggiunge durante la stagione 2013-2014: dopo un’annata di grandi proseliti, conclusa con 11 gol in 22 presenze, Luis cade nel baratro rispondendo alla maggiore richiesta di responsabilizzazione prevista dal disegno tattico di Guidolin, con un magro bottino di 4 reti in 22 presenze.
I motivi del decadimento Luis li rintraccia in un contrasto insanabile con il tecnico friulano: ‹‹Nell’anno degli 11 gol ero più libero. Poi hanno chiesto cose che prima non mi chiedevano, tipo correre dietro a tutti. Quello che aveva fatto – e bene – Alexis Sanchez, solo che io non ho quelle caratteristiche. Così facevo una gran fatica››. La difficoltà nell’addomesticare gli istinti all’interno di un calcio sempre più cerebrale viene massimizzata da una serie di polemiche sulla sua condizione atletica. Intorno a Muriel si alimenta un’invettiva mediatica – rimpolpata da alcune dichiarazioni al vetriolo dello stesso tecnico – volta a identificare il calo di rendimento con una forma fisica rivedibile. I paragoni con Ronaldo ritornano in voga, questa volta ad indicare non più la naturale predisposizione al dribbling o lo scatto bruciante, quanto la comune tendenza ad ispessire colpevolmente il proprio girovita: ‹‹Quella del peso – ha rivelato recentemente Luis – non è mai stata una dannazione, semmai un luogo comune nato a Udine quando non facevo bene. Il mio peso forma è da sempre 82-83 chili, a Lecce ero 83 e andavo come un treno››. La replica alle tendenziose affermazioni di Guidolin trabocca di risentimento: ‹‹Quando disse che ero grasso pesavo 84 chili, peccato che quando sceso a 81 se ne parlava lo stesso. Mi mise addosso una croce che non meritavo. La verità? C’è chi ingurgita di tutto ed è secco come un chiodo, tipo Cuadrado, mentre io appena mangio un po’ di più ingrasso: è genetica››. La conclusione sull’argomento è tutta un programma, autentica resa del carattere genuino di Luis: ‹‹Non nego che mi piace mangiare, ma per fortuna non amo i dolci: da piccolo ero addirittura allergico alla cioccolata. Certo, scoprire le trofie al pesto non è stato un aiuto››.
In un contesto di profonda frustrazione, personale e collettiva, Muriel cova il desiderio di lasciare Udine e di affrancarsi da un rapporto – quello con Guidolin – mai pienamente sbocciato. Il più grande limite di Luis è la costante incapacità di adeguarsi allo scenario tattico proposto in terra friulana, probabilmente troppo complesso e ragionato rispetto al suo modo di vivere il calcio. Se come costantemente ricordato da Nunes, il gioco non può prescindere dal divertimento, Muriel intuisce che è necessario cambiare aria. L’incontro con un personaggio ai limiti del caricaturale come Massimo Ferrero è la svolta per una nuova fase.
I retroscena sul suo trasferimento alla Samp nel gennaio del 2015 assumono tinte quasi surreali: Muriel si trova barricato nell’Hotel Astor di Nervi a Genova, in attesa di conoscere le sorti del suo futuro, quando Sampdoria e Udinese trattano freneticamente per trovare un accordo sulle cifre della transazione. Al dinamismo, tipico di una contrattazione che coinvolge interessi milionari, si frappone l’immobilismo di una reclusione forzata. Muriel – all’epoca costretto alla fisioterapia per recuperare da un infortunio – lavora in palestra, logorato nello stomaco da un’attesa infinita. Alza la cornetta e chiama nervosamente Ferrero: ‹‹A Udine non torno, piuttosto vado in Colombia››. E Ferrero giù sempre con la stessa frase: ‹‹Tranquillo, resti qui. Io sono nelle tue mani e tu sei nelle mie››. La storia va avanti alla stessa maniera per dieci giorni. Muriel trascorre le mattinate ad osservare le coppie di anziani che passeggiano sulla scogliera e di tanto in tanto esce a prendere una boccata d’aria, giusto il tempo di fare una chiamata al procuratore Lucci. La complicazione nella trattativa è data proprio dalla condizione fisica di Muriel, oggetto di una rivalutazione in sede d’acquisto. Alla fine arriva la fumata bianca: Muriel va alla Samp in prestito con obbligo di riscatto fissato a 10.5 milioni più un bonus di 1.5 milioni legato al raggiungimento di 30 presenze durante l’arco della stagione.
ATTO FINALE
Durante la prima stagione e mezzo in blucerchiato, l’esperienza di Muriel è – come sempre – un continuo chiaroscuro. Il rendimento intermittente trova una sua parziale giustificazione nei molteplici stravolgimenti tattici di cui è vittima la Sampdoria: a Genova in appena diciotto mesi si alternano tre allenatori – peraltro tutti piuttosto integralisti e fautori di un approccio sistemico – che chiedono a Luis cose diverse, disorientandolo, e alimentando la sua naturale tendenza allo smarrimento. Se il rigore e la disciplina richieste da Mihajlovic lo inibiscono, l’arrivo di Zenga gli ridà indietro quella libertà tattica che costituisce l’humus essenziale per esprimersi ad alti livelli. Muriel soffre quando è irretito in specifici compiti offensivi o deve prodigarsi più del dovuto in difesa, e non è un caso che proprio durante i primi mesi della stagione 2015-16, con Zenga allenatore, trovi ritmo e condizione. In quella squadra l’altro terminale offensivo è Eder, il suo più complementare alter-ego: l’italo-brasiliano lavora instancabilmente per la squadra, espletando a tutto campo funzioni di recupero, raccordo e finalizzazione, mentre Luis si crogiola nel suo approccio personale al calcio. E’ libero di accendersi, di puntare l’uomo con la tradizionale esplosività, di agire vicino alla porta senza estenuanti licenze difensive. Tutti privilegi che gli vengono revocati con l’arrivo di Montella, uno che all’estemporaneità della giocata predilige una massiccia predeterminazione dei ruoli.
L’ottimo rendimento maturato in questi ultimi mesi alla corte di Giampaolo deve essere interpretato sotto due profili. Da un lato l’organizzazione tattica della nuova Sampdoria prevede che sia Quagliarella a stazionare al centro dell’attacco, consentendo a Muriel di partire dall’esterno per poi tagliare il campo sfruttando tutto il suo talento in progressione: individuato il settore di competenza – in un sistema che invita due attaccanti già di per sé inclini all’individualismo a perseguire la soluzione personale – Muriel gode di ampia autonomia creativa, la stessa che consente di esaltarne la potenza. Dall’altro lato i motivi del successo risiedono, come spesso accade, in un nuovo approccio mentale elaborato dal colombiano per arginare altre illusioni: ‹‹Vorrei eliminare questa parola perché è quella che mi sono sentito rinfacciare di più: ho illuso e poi deluso. Gli altri, ma prima me stesso con grandi inizi seguiti da grandi cali››. La rivoluzione avviene sotto un nuovo mantra e aderisce ad un virtuoso intento di redenzione: ‹‹Facevo stare male anche chi aveva puntato su di me: mio padre e Alessandro Lucci –dichiara Muriel – uno di famiglia più che il mio procuratore. Ma ora basta illusioni, questo è l’anno. Non so cosa e quando mi è scattato in testa, però mi sono detto: ‘Se fallisci, se l’aspettano tutti: stavolta stupiscili. Non con una giocata nuova: con una testa nuova’››. Non resta che rimettersi, con estrema fede, alle sue parole.
Al momento la metamorfosi di Muriel si è tradotta in quattro reti e due assist, ma le tracce di un radicale cambiamento si condensano in un rivisitato body languange ancor prima che nei numeri: i momenti di affrancamento dalla squadra nel corso di una partita – tipici e costanti nel passato – sono sempre più ridotti e convertiti in una sorprendente attitudine alla produzione del gioco. Al di là della fase realizzativa, Luis partecipa con costante coinvolgimento alla manovra integrando le consuete sortite individuali ai precetti di un sistema organizzato. Sradicare l’istinto alla soluzione personale e calcare la mano nella canonizzazione del suo calcio significherebbe privare Luis della sua essenza, determinando un effetto paradossalmente negativo. La nuova primavera di Luis, e il passaggio dalla potenza all’atto, sta avendo luogo all’insegna di un compromesso che valorizza il modo più primordiale di giocare a pallone, quello praticato nella sua Santo Tomás. Un’esperienza di fuga, che non bada troppo ai formalismi.
Luis Muriel è potenzialmente un fenomeno, e se ne sta rendendo conto soltanto adesso. L’ultima missione è quella di rimuovere, una volta per tutte, quell’avverbio che per troppo tempo ha costituito la sua dannazione. Luis Muriel vuole essere atto, rinunciando al grigio insipido della possibilità.