Lunghi capelli biondi che scivolano sul cranio senza il minimo cenno di ribellione. Come un corso d’acqua quieto, la chioma di Erik Lamela aggira dolcemente le orecchie per poi sfociare lenta tra le scapole. Coco, così lo chiamano i suoi amici nei polverosi potreros di periferia, ha appena dodici anni. Ma anche la risolutezza di chi conosce vizi e segreti tra i vicoli di Buenos Aires.
Guarda dritto in camera mentre l’asfalto assolato de La Boca viene consumato dallo stridio delle scarpe e dal frenetico strusciare del pallone: “Espero ser un gran jugador de fútbol”. L’orecchino sul lobo sinistro fa il paio con l’arroganza di un piccolo diavolo.
E’ il 2004 quando le telecamere di Trans World Sport ficcano il naso tra i sobborghi della capitale argentina. L’obiettivo è quello di documentare la crescita dentro e fuori dal campo dei migliori prospetti sudamericani, come in una sorta di talent show ante litteram: coefficiente di show business ridotto all’osso, storie di redenzione in abbondanza. L’intento non è celebrare ma piazzare profezie vincenti. Sì perché Youtube non esiste ancora, e con esso le centinaia di compilation di enfant prodige alle prese con vortici di dribbling ed evoluzioni. Nessuna predestinazione certificata online, soltanto un sogno nel cassetto. E dalle parti del Rio de La Plata, quanto meno in materia di sogni, vanno tutti d’amore e d’accordo.
Dio a La Boca
Popolo di rara fede quello argentino. Prima di tutto c’è Dio, inteso come eterna presenza nelle vicende umane. Poi il fútbol, venerato attraverso la camiseta del quartiere d’origine. Infine c’è Maradona che incarna l’uno e l’altro, divinità in movimento che sa di essere uomo ma anche etere. Come nel caso del graffito che campeggia su una peluqueria de La Boca mentre Erik dà prova della sua abilità col pallone: “Diego (10) Capo” – questa la scritta su una saracinesca perlacea- non degrada il paesaggio, lo integra. E’ un caposaldo della cultura, un monito per le generazioni future. Chiunque abbia dodici anni sogna di essere Diego Armando Maradona. I sogni di Erik sono solo un po’ più concreti perché i suoi piedi accarezzano la palla decisamente meglio di quanto tanti altri ragazzi riescano a fare.
Centoventi gol in una sola stagione con le giovanili del River Plate giustificano l’indiscreta presenza delle telecamere nella sua stanza a Carapachay, un piccolo barrio della periferia di Buenos Aires. Erik è un talento straordinario. Qualche anno addietro l’eco della sua classe era arrivato perfino in Catalogna, in maniera tanto dirompente da stuzzicare l’interesse del Barcellona. 160mila dollari, un impiego fisso per papà Josè e mamma Miriam più un preaccordo di sponsorizzazione con la Nike: questa l’offerta rispedita al mittente da parte di Josè Marìa Aguilar, presidente de Los Millonarios, con avvallo della famiglia Lamela, che in cambio della permanenza in Argentina ottenne due borse di studio per Axel e Bryan, i fratelli di Erik, e la promessa che il chico della discordia avrebbe esordito presto in prima squadra.
Mentre Erik confida le sue fantasie ai microfoni di Trans World Sport si percepisce qualcosa di inquietante. E’ come se le parole pronunciate perdessero significato una volta abbandonate le labbra, tremendamente incoerenti con l’ambiente che le avvolge. A rendere tutto poco credibile è la mancanza di quell’atmosfera da “Les Misérables” che stereotipicamente suggella le storie di speranza in Sudamerica. Erik proviene da una famiglia benestante, ha una bella casa e tutti i comfort che un ragazzino della sua età possa desiderare. Si concede il lusso di replicare alla Playstation pisadite e rabone che tanto bene gli riescono su un campo da calcio.
Mentre gli affari della panetteria di famiglia e del centro di allenamento gestito dal padre procedono in regola, Erik continua ad impressionare sui campi di Buenos Aires e dintorni. L’infanzia del Coco trascorre così lenta e sicura, come una nave che veleggia a fil di costa. Il fútbol non è una via di fuga, ma un piacevole vezzo coltivato con determinazione fino all’esordio in prima squadra, a 19 anni, in un River Plate-Tigre datato 26 giugno del 2009. Da lì 38 presenze e 4 gol, tanti sorrisi prima di una stagione infausta, quella del 2011, che coincide con la retrocessione del River in Primera B Nacional: è la prima volta in centodieci anni di storia per il club più titolato d’Argentina. Erik è parte di uno psicodramma collettivo, sente il bisogno di volare via. Questa volta l’approdo in Europa ha il sapore della necessità.
Lamela non è né il primo né l’ultimo giocatore argentino a lasciare la sua terra per cercare fortune in Europa. La partenza da Buenos Aires ha però nel suo caso una sfumatura particolare. C’è una quota di ordinaria nostalgia, il desiderio di lavare l’onta della retrocessione, e la consapevolezza che il fútbol rappresenterà da lì in avanti l’unica fonte di sostentamento. Non è una scelta così scontata: non l’aveva accolta in gioventù di concerto con la famiglia, deviando da un percorso, quello seguito per esempio da Messi, che si prospettava il miglior viatico per la crescita professionale. Dopo il rifiuto del Barcellona a dieci anni – e qui andrebbe aperto un altro infinito capitolo sull’opportunità di commercializzare il futuro di un minorenne -, il secondo treno passa e si ferma alla stazione di Termini. Con un’operazione complessiva di 17 milioni di euro, il 6 agosto 2011 Lamela diventa un nuovo giocatore della Roma.
Buenos Aires e Roma sono due città molto simili
Sono entrambe due capitali, posseggono due fiumi che ne raccolgono in silenzio gli umori e un’innata tensione alla complessità. Buenos Aires e Roma sono due città molto simili. La prima ha Diego Armando Maradona, la seconda ha Francesco Totti. A certificare il paragone è lo stesso Erik Lamela che azzera con ineffabile eleganza gli oltre 11mila chilometri tra l’Estadio Monumental e l’Olimpico. Gli bastano 8’ per realizzare il suo primo gol, una pennellata rinascimentale a giro sul secondo palo. Idolo in patria e profeta fuori, Erik si prende lentamente i cuori giallorossi riducendo al minimo gli urti della latitudine.
Lamela è uno di quei giocatori che ridefinisce i canoni estetici del gioco. Il modo in cui si muove su e giù per il campo ricorda quello di un pattinatore sul ghiaccio alle prese con un delicato esperimento di potenza e controllo. Oltre a dover mantenere l’equilibrio su due lastre di metallo, ha la forza magnetica di trattenere a sé il pallone, curandosene con grazia e disinvoltura. Merito dell’esperienza nel calcio a 5, di cui rispetta e applica i precetti anche in un campo più grande: il passaggio non comporta dazi, ma un semplice adeguamento nelle proporzioni. La filosofia della scuola catalana di Luis Enrique, tecnico della Roma nella stagione 2011/12, ne esalta le doti, minimizzando lo scarto tra la spensieratezza sudamericana e rigidi tatticismi legati alla tradizione italiana. Nel 2012 viene inserito nella lista dei 100 migliori calciatori stilata da Don Balón e riceve il riconoscimento di Atleta dell’anno nella quarta edizione del premio assegnato al Campidoglio.
Il labile confine tra promessa e giocatore affermato è segnato da un solco profondo. Lamela supera quel baratro con l’arrivo di Zdeněk Zeman, uno che di salti e di giovani se ne intende. I gradoni come metafora della vita, scalati da Erik con la consueta grazia: sotto la guida del boemo segna 15 gol nella stagione 2012/13, la migliore in carriera sul piano realizzativo. I duetti con Totti distorcono il senso comune del tempo, disponendo passato, presente e futuro su un unico piano. “Spero sia il mio erede”, questa l’investitura del capitano giallorosso. Per osmosi è come se le parole discendessero direttamente da Diego Armando Maradona. D’altronde Roma e Buenos Aires sono due città molto simili.
Lost in Lamela
“Vendere Lamela mi ha ucciso”. Dichiarazione tout court quella di Walter Sabatini, ex direttore sportivo della Roma, rilasciata proprio in occasione della sua conferenza d’addio dello scorso ottobre. Tra le tante operazioni di una carriera ai vertici professionali, Sabatini ha associato a Lamela il suo più grande rimpianto. I 30 i milioni incassati dalla società capitolina sono serviti a placare il dolore ma non a cancellare la perdita.
L’esperienza di Lamela al Tottenham è un encefalogramma impazzito. I picchi sono presto rimpiazzati da repentini cali, spesso legati ad una condizione fisica non sempre ottimale. Un lungo infortunio patito nel dicembre del 2013 lo tiene fuori per il resto della stagione. A Londra, zona White Hart Lane, iniziano a proliferare dei buffi volantini: “Lost Lamela” è il titolo di un’iniziativa promossa dai tifosi degli Spurs, desiderosi di indagare sulla scomparsa del Coco dai campi della Premier League. Il volantino prosegue: “Visto raramente. Trova difficile adattarsi al nuovo ambiente. Ultima apparizione – altra punzecchiatura in puro stile british – è stato visto aggirarsi in stato confusionale, con sguardo assente e confuso”. “Nessuna ricompensa!” la chiusa finale, come a voler dire che un ulteriore esborso di denaro non solo non è ammesso, ma in definitiva neanche contemplabile.
Nella stagione seguente Erik ritorna e dirada ogni scetticismo. Trova con Mauricio Pochettino quell’affinità umana ancor prima che professionale che con Villas-Boas aveva faticato ad instaurare. Dimostra di poter giocare ad alti livelli anche in un sistema tatticamente complesso, in cui l’ordine e la disciplina costituiscono i valori portanti. Il suo talento non ne risente, anzi trae vigore dalla solidità di gioco degli Spurs, sviluppando un preciso canale espressivo. Il manifesto della rivoluzione è un gol di rabona segnato il 23 ottobre 2014 contro l’Asteras Tripoli durante la fase a gironi di Europa League. Un modo tutt’altro che banale per ritrovarsi.
Erik brilla anche nella stagione seguente, quella in cui il suo Tottenham è l’inusuale antagonista di un complesso intreccio fiabesco: gli Spurs scalano la vetta della Premier, salvo poi imbattersi nella forza provvidenziale che assiste il Leicester sul tetto d’Inghilterra. Lamela chiuderà l’annata con 11 gol in 44 presenze, miglior score personale nella sua esperienza oltremanica. Da lì un’altra delusione, quella della Copa América Centenario con la maglia della nazionale argentina, e un nuovo infortunio nello scorso ottobre. Sono ormai cinque i mesi trascorsi dall’ultima volta in cui Coco ha incantato con il suo mancino.
Anche fuori dal campo la vita del nativo di Carapachay si è intrisa di sofferenza. A dicembre un gravissimo incidente stradale ha messo a repentaglio la vita del fratello. Poche settimane più tardi il suo fedele amico a quattro zampe Simba, il bulldog con cui ha condiviso il peso della nostalgia di casa, è morto tra le sue braccia. Erik ha ottenuto dal Tottenham il permesso di allenarsi a Roma dove, in compagnia degli amici più cari, ha cercato di alleviare il dolore curandosi nel frattempo dall’infortunio all’anca. “La stagione di Erik potrebbe essere finita qui” ha dichiarato pochi giorni fa Mauricio Pochettino, a testimonianza di come l’incubo sia lontano dalla fine.
Erik ha compiuto 25 anni lo scorso 4 marzo e probabilmente non si è mai sentito così fragile e indifeso. Il sorriso beffardo sfoderato tra i campi polverosi de La Boca rimane soltanto un ricordo ingiallito.