La sensazione è che Rostov resterà impressa nella memoria comune del Giappone come una città nefasta e infausta. Colpa, anzi merito della rimonta belga al 95′, quella firmata al 94′ da Nacer Chadli, uno che avrebbe comunque potuto scegliere la nazionale marocchina anziché Les Diables Rouges. Quella che ha rotto nel paniere i sogni nipponici, maturati in un ottavo di finale che Haraguchi prima (47′) e Takashi Inui poi (52′) sembravano aver blindato sufficientemente bene.
Il Giappone di Nishino però non aveva fatto i conti con la fortuna, che prima ha livellato la traiettoria del colpo di testa assestato da Jan Vertonghen (70′) rendendolo imparabile e letale, e poi s’è divertita a far sì che Marouane Fellaini mostrasse la sua strapotenza nel gioco aereo (73′), da subentrato, nel cuore dell’area dei Samurai. Un finale thrilling, il pallone perduto (malamente) da Honda e la gestione (altrettanto pessima) di un pallone poi inferto in modo troppo bruciante. C’è poco da fare autocritica, da cercare spiegazioni, perché ancora oggi a una settimana di distanza le colpe restano di Keisuke Honda, un numero 4 ex numero 10 che l’Italia ha sedotto e abbandonato, forse tradita dal suo luminescente ego. Alla fine è stato un finale da samurai, un harakiri perfetto per lo stile e per il contenuto morale di una partita combattuta, messasi su binari favorevoli e poi colpevolmente lasciata in balia degli avversari.
Tutti a terra al triplice fischio, in ginocchio sull’ultima ripartenza di Kevin De Bruyne e sul successivo traversone di un inesauribile Meunier, galvanizzato da quell’occasione capitata quasi per caso. Honda, come conseguenza dell’eliminazione maledetta del Giappone, annuncerà intorno alla mezzanotte il suo addio alla nazionale. Il sipario sul campo si sarebbe spostato fuori, con la classica lezione di civiltà nipponica: quella cui ci hanno abituato, con spettatori armati di sacchetti e soprattutto buona volontà intenti a ripulire i loro settori dello stadio. Via cartacce, bicchieri, plastica e quell’insostenibile sensazione di non aver dato abbastanza, o comunque di non esser riusciti a gestire la gara, o comunque di essersi comportati da polli. Eppure, tutto questo lacrimare è stato annaffiato dalla solita compostezza orientale: si sono fatti la doccia, hanno sistemato lo spogliatoio, si sono presentati davanti ai giornalisti e infine hanno lasciato una nota in russo per ringraziare dell’ospitalità.
Non è dunque bastata la sconfitta per attaccare il valore di cui è intrisa la cultura giapponese. “È stata davvero una tragedia, mi sento devastato, sono molto deluso – ha comunque esordito il ct Akira Nishino davanti agli occhi carichi di domande dei giornalisti arrivati dal Giappone, quando già l’allenatore aveva in testa le dimissioni – i giocatori hanno giocato al meglio delle loro possibilità, abbiamo espresso un buon calcio, ma l’obiettivo era qualificarsi. Non posso quindi definire questa gara un successo, siamo riusciti a mostrare una mentalità diversa rispetto al passato, ma non è bastato. Abbiamo disputato una prova alla pari degli avversari, la responsabilità della sconfitta è mia e non dei giocatori“. Massima sincerità premiata anche dal primo ministro nipponico, Shinzo Abe, che pubblicamente ha scelto di mostrare la sua riverenza nei confronti dei connazionali: “Con tutto il cuore ringrazio i giocatori della nazionale giapponese, che hanno fatto tutto il possibile fino alla fine e ci hanno regalato cosiìtante emozioni. Grazie per questi giorni avvincenti in cui ci è sembrato di sognare“. Fermo restando che, in media, i principali scommettitori davano a 1,37 la vittoria del Belgio.
A incrementare il comune sentimento di affetto nei confronti del pubblico del Giappone è poi intervenuto anche Alberto Zaccheroni a La Gazzetta dello Sport: “Quando finisce una partita, il giocatore che si sfila per primo un indumento lo piega e lo sistema per terra, tutti quelli che vengono dopo utilizzano lo stesso metodo. In pratica si formano quattro pile di indumenti sporchi: maglietta, pantaloncini, calzettoni e canottiere tecniche. Questo succede perché il lavoro del magazziniere è visto col massimo rispetto e tenuto nella massima considerazione“. Un sentimento che trova posto nella comune mentalità ancor prima che nel pensiero del singolo. Etica applicata alla vita quotidiana.
Entrando nella sfera prettamente calcistica, quello giapponese a Russia 2018 è stato il tramonto di carriera di molti: il 34enne Eiji Kawashima, portiere del Metz e titolare in campo coi suoi guantoni e le sue parate, che parla fluentemente sette lingue e che agli inizi si allenò in Italia. Ma anche Yuto Nagatomo, 31enne oggi, che dopo la Serie A con Cesena e Inter aveva scelto il Galatasaray come successivo punto della sua carriera, continuando ad alternare l’attività di terzino a quella di scrittore di libri sullo yoga. Il 35enne Makoto Hasebe, capitano della spedizione dal 2010, paragonato da Zaccheroni a Paolo Maldini per il suo eccezionale temperamento. Ancora, il 32enne Keisuke Honda, messicanizzato al Pachuca e in declino da qualche anno, e soprattutto il bomber Shinji Okazaki, numero 9, ariete che in tandem con Jamie Vardy riuscì a vincere la Premier League col Leicester ormai due anni fa. Pure lui come Nagatomo ha scritto un libro, dedicato alla motivazione e alla ricerca dell’energia positiva (il titolo è “Donsoku Banzai!”). Un altro giocatore ad esser apparso nelle librerie è il sopracitato Hasebe, mediano dell’Eintracht Francoforte e autore di “Allenare la mente” (in giapponese “Kokoro o totonoeru”), pubblicazione i cui diritti sono stati venduti per 1,65 milioni di dollari interamente devoluti alla ricostruzione promossa da Unicef dopo il terremoto che nel 2011 colpì violentemente il Giappone.
Storie anticonvenzionali, che si mischiano a quelle delle nuove generazioni. Già, perché accanto ai veterani c’è spazio per le giovani leve: il 23enne portiere Kosuke Nakamura, che ha dichiarato di avere Oliver Kahn come modello, il 23enne difensore Naomichi Ueda, che al calcio affiancava il taekwondo avendone rappresentato pure il suo paese ai mondiali, il 25enne centrocampista Ryota Oshima, sbocciato ai tempi dell’università e ora pilastro dei Kawasaki Frontale, il 25enne Yoshinori Muto che in Bundesliga ha trovato spazio e tempo per sbocciare col Mainz. A loro passerà di mano il testimone, progressivamente, la generazione ’89-’90-’91: quella dei Shinji Kagawa e degli Hotaru Yamaguchi, dei Takashi Inui e dei Yuya Osako, di Yiroki e Gotoku Sakai, che malgrado il cognome identico non sembrerebbero legati da qualche parentela. Partirà anche da loro la ripartenza dopo l’harakiri russo a Rostov.