C’è stato un tempo in cui quello di Serie A era considerato il campionato più bello del mondo. Un tempo in cui di soldi ne giravano a palate ed i campioni non avevano dubbi quando c’era da scegliere se sbarcare o meno sullo stivale. All’epoca, infatti, vincere indossando la maglia di un club italiano era quasi una garanzia. Anche oltre i confini nazionali. E non solo grazie alle grandi città. Ma anche grazie alle squadre di provincia. Quella provincia che con il Parma, l’Atalanta, il Vicenza, il Brescia, il Perugia od ancora, in epoca ancora più recente, Palermo, Livorno, Chievo, sapeva togliersi grandi soddisfazioni e, soprattutto, sapeva togliere alle big. In maniera più o meno clamorosa. Storie queste di club e protagonisti figli di un dio minore che, una volta approdati sul grande palcoscenico, sapevano trasformarsi. E divertire.
Qualcuno ricorderà la trasferta a San Siro del Livorno nel settembre 2004, la prima dopo 55 anni di assenza dalla Serie A dei labronici. Non solo calcio ma anche incroci politico-sportivi (qualcuno ricorderà le bandane degli amici livornesi per omaggiare il Cavaliere, nonché presidente della squadra avversaria) con Cristiano Lucarelli, bomber con la maglia del Livorno scolpita letteralmente sulla pelle, condottiero in un match che poi si chiuderà con uno storico quanto inatteso pareggio. Una storia che richiama alla memoria il celebre film di Mario Camerini “Gli Eroi della Domenica“, in cui una imprecisata squadra provinciale è alle prese con una complicatissima trasferta a San Siro sempre contro i rossoneri. Un filone, quello dell’esaltazione della squadra di provincia, che ha spesso ispirato il mondo cinematografico italiano. Le creazioni di Sergio Martino, l’Allenatore nel Pallone e Mezzo Destro Mezzo Sinistro, ne sono un esempio.
Recentemente, però, il calcio italiano oltre ai soldi ed all’appeal sui campioni stranieri e non, sembra aver perso anche altro: la qualità e l’imprevedibilità delle cosiddette provinciali. La crisi nella penisola ha colpito anche il mondo pallonaro travolgendo molte di quelle compagini che hanno scritto pagine di storia del calcio nostrano e che spesso si sono ritrovate costrette a ripartire dalle categorie inferiori.
Se vediamo la composizione dei campionati di vent’anni fa, vedremmo mediamente un blocco di 6/7 squadre che oggi remano, con difficoltà, in altri lidi. È il caso questo ad esempio del Lecce, da anni impelagato in Lega Pro, del Catania o del Livorno stesso.
È sempre più raro trovare squadre di provincia che si rendano protagoniste di imprese epiche. Prendete ad esempio il Bari di Fascetti che nel ’98, battendo per 2-1 l’Inter con le magie di Cassano e Enyinnaia tagliò fuori i nerazzurri dalla corsa scudetto; o il Perugia di Carlo Mazzone, che nel 1999-2000 terminò il campionato al 10° posto . Una stagione tutto sommato anonima, se non fosse che la vittoria all’ultima giornata contro la Juventus del 14 maggio 2000, maturata sotto l’acquazzone del Curi, costò lo scudetto ai bianconeri che vennero scavalcati dalla Lazio sul filo di lana. E ancora, sempre restando in tema di squadre capitoline, come dimenticarsi la trasferta a Venezia della Roma nel 2002? Per i giallorossi un 2-2 in rimonta dopo esser stati sotto per 2-0 contro una squadra già in rotta per la B. Storie rocambolesche, che risalgono ad un’epoca dopo tutto abbastanza recente senza che si renda necessario scomodare episodi storici come Roma-Lecce 2-3 o la Fatal Verona. Storie che, purtroppo, negli ultimi anni è veramente difficile raccontare
Che il livello della Serie A si sia complessivamente abbassato è sentenziato dai numeri. La quota scudetto è oramai altissima (la peggior Juventus dei 6 scudetti fece 84 punti, due in più rispetto all’Inter del triplete); quella per la salvezza ha raggiunto soglie indecenti (l’ultima stagione in cui tutte e 3 le neopromosse si sono salvate è il 2007-08, con Juventus Genoa e Napoli nella parte sinistra della classifica). Il risultato, in sintesi, è che la maggior parte delle squadre e dunque delle partite, veleggia senza apparenti problemi per 38 giornate rendendo priva di interesse e soggetta a speculazioni buona parte del campionato.
Il campanello d’allarme sta suonando da tempo dato e forse le gesta del Benevento in questa stagione riusciranno finalmente a smuovere qualcosa. Quella dei sanniti si auspica sia la goccia che farà traboccare il vaso.
Nel frattempo abbiamo detto addio alle favole (per un Crotone salvatosi incredibilmente abbiamo visto negli ultimi anni le inesorabili retrocessioni di Carpi, Frosinone, Cesena e Pescara. Abbiamo detto addio ai bomber di provincia; ai Lucarelli, ai Protti, ai Maccarone, della situazione. Tralasciando la sfilza di stranieri che oramai imbottiscono buona parte delle rose delle squadre di Serie A, neo-promosse comprese, risulta sempre più difficile trovare giocatori italiani nelle zone nobili della classifica dei marcatori.
Inquietante come anche le piccole cedano immediatamente al fascino dell’esotico appena arrivate in Serie A. Spesso e volentieri giocatori neanche utili o minimamente funzionali ai propri dettami tattici. Da Saviola al Verona a Bahebeck nel Pescara, passando per Armenteros del Benevento. Dove sono i Dario Hubner o i Filippo Maniero della situazione?
Al giorno d’oggi basta un campionato in vetrina magari in Serie B per essere ceduti a peso d’oro alle big. Dove, però, non sempre c’è la possibilità o la capacità di mettersi in mostra. Cosa che fa partire una girandola di trasferimenti che spesso e volentieri porta a perdersi nei meandri dei campionati professionistici nostrani.
Le eccezioni, Atalanta e Sassuolo, esistono ed esistono soprattutto grazie alle consolidate realtà imprenditoriali, eccellenze italiane, che guidano i due club. Ma il quadro in generale è abbastanza tragico. È quasi come se Juventus, Napoli e Roma (limitandoci alle squadre che con maggiore costanza hanno lottato per lo scudetto negli ultimi ani) partissero da una base di 60 punti per poi aggiungere record su record. Assistiamo a paradossi incredibili. Come la Roma che con due secondi posti ha fatto più punti dell’anno dell’ultimo scudetto; oppure un’Atalanta che chiude al quarto posto con oltre 70 punti.
Trovare soluzioni è più facile di quanto non sembri fermo restando che il solito mantra sul ritorno ad una Serie A a 18 squadre è solo il canonico palliativo di chi non ha voglia di pensare. La tanto celebrata Premier League conta 20 squadre. Indice del fatto che la soluzione va cercata non nell’aspetto quantitativo del problema ma in quello qualitativo. Magari prima di dover assistere ad un altro campionato che, a fine ottobre, è già finito per almeno 10 squadre.