Doveva essere la partita della svolta. È diventata la partita che apre ufficialmente la crisi biancoceleste. Squadra senza gioco, senza mordente. Senz’anima. Rosa corta, riserve non all’altezza (ma neanche i titolari non lo sono in questo momento), acquisti che sono poco più che giovani di belle speranze e infortuni che falcidiano il gruppo. Musi lunghi; uno spogliatoio che da fuori sembra proprio una polveriera pronta ad esplodere. Un condottiero che sembra aver perso la bacchetta magica. Un ambiente infine che tra battaglie verso le istituzioni e quelle verso la presidenza non aiuta e stimola certo una squadra smarrita che deve assolutamente risalire la china il prima possibile. Ora o probabilmente mai più. Perché i punti a conti fatti sono più o meni quelli dello stesso anno. Ma è livello degli avversari ad essersi innalzato. E se migliorare il piazzamento della scorsa stagione sembrava di per se già difficile, è raggiungere un piazzamento europeo che se oggi non sembra utopia è solo perché c’è un innato senso di ottimismo in ognuno di noi. Ma da dove nasce questo momento biancoceleste? Vi proponiamo un breve viaggio al centro della crisi della squadra di Pioli articolato in quattro tappe fondamentali.
La qualificazione al preliminare di Champions – Chiariamo subito. Il problema non è stato certo aver centrato la qualificazione al preliminare della Champions League nella notte del San Paolo. Il problema, semmai, è stato che raggiungere l’agognato traguardo ha creato la convinzione, almeno nella dirigenza, che la rosa fosse competitiva così come era e che l’esigenza si riducesse semplicemente a quella di dover puntellare i vari reparti. Visione forse in parte anche condivisibile se non si fosse rivelata in concreto assolutamente divergente dalle attese. Anziché rinforzare con innesti di qualità ed esperienza si è preferito puntare su profili giovani rivelatisi, oggi ancor più che questa estate, vere e proprie scommesse. Hoedt, Patric e Morrison. Il centrale olandese, sorvolando sulla notte di Napoli dove è stato incautamente mandato allo sbaraglio nonostante le premesse per l’epilogo fossero evidenti già dall’esordio, è assolutamente acerbo per il campionato italiano. Morrison ad oggi ha fatto parlare di se esclusivamente per la sua più o meno manifesta volontà di fare i bagagli e tornarsene in Inghilterra. Patric è considerato un acquisto talmente risolutivo da essere stato escluso anche dalla lista per l’Europa League. Poi c’è Kishna. L’esterno olandese è il tipico giocatore che cerca la Lazio di questi anni. Il giovane talentuoso da comprare a poco e con un po’ di fortuna rivendere a tanto. Doppione di Candreva, Felipe Anderson e Keita dei quali, infatti, è considerato riserva nelle gerarchie di Pioli. Sia chiaro, resta sempre uno dei prospetti più interessanti. Ultimo, Milinkovic-Savic. A lungo inseguito, tanto desiderato, infine arrivato. E’ l’unico dei nuovi acquisti che ha trovato il campo con una certa continuità seppur in un ruolo che non gli appartiene. Buon giocatore con un grande futuro davanti a se. Non certo oggi uno di quei giocatori che, specialmente in Europa, ti fa fare il salto di qualità. Dando atto alla società di aver trattenuto tutti i cosiddetti campioni e di aver alleggerito il monte ingaggi liberandosi di parecchi pesi morti, è comunque evidente che gli innesti non erano i giocatori che servivano ne per caratura ne per ruolo. A che serve avere una Ferrari in difesa (De Vrij) se poi la fai giocare accanto ad una cinquecento (Mauricio, Gentiletti e lasciamo in pace il povero Hoedt). Perché far partire Ledesma (uomo spogliatoio) senza un sostituto quanto meno di pari livello che sia in grado di dare il cambio a Biglia? Perché affrontare una stagione con due sole prime punte in rosa, Klose e Djordjevic, la cui tenuta per età anagrafica (il primo) o gravità dell’infortunio subito (il secondo) è una vera e propria scommessa? Un difensore, un vice-Biglia ed un attaccante di livello erano innesti che alla Lazio, anche quella della scorsa stagione, sarebbero serviti a prescindere dall’accesso alla fase a gironi della Champions. Non sono mai arrivati.
Shanghai e la fascia da capitano – La seconda tappa fondamentale della crisi biancoceleste è la Supercoppa di Shanghai. Ha falsato la preparazione che per oltre una settimana è stata effettuata nel caldo afoso ed umido della città cinese; ha portato in dote l’ennesima sconfitta (diciamo ennesima perché si somma a quella nella finale di Coppa Italia ed a quella nel derby di ritorno dello scorso campionato che senza il rigore di Higuain ha rischiato di compromettere un’intera stagione); ha generato malumori diffusi all’interno dello spogliatoio. In primis, la scelta del capitano. Senza Mauri, poi tornato a fine mercato anche qui facendo storcere il naso a più di qualcuno nelle stanze di Formello spogliatoio compreso, e senza Ledesma, un plebiscito popolare (tifosi e giocatori) voleva che la fascia toccasse a Candreva con Radu come vice. La scelta dell’allenatore è invece ricaduta, probabilmente sotto indicazione della società, su Lucas Biglia. Non è dato sapere se l’investitura è stata dettata da scelta tecnica o dalla volontà di addolcire un giocatore che fino a quel momento aveva più volte dichiarato di essere incerto circa il suo futuro nella capitale. A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si indovina come avrebbe detto qualcuno. Fatto sta che in questo modo si è praticamente perso Candreva al quale si sarebbe dovuto dare quanto meno il giusto merito per aver tirato la carretta ininterrottamente per tre anni circa. Ma la notte di Shanghai, oltre a gettare nello sconforto la squadra per una prestazione a tratti desolante, ha anche scatenato il caso Keita. Il giocatore, fino a quel momento ai margini della rosa e ad un passo dalla cessione, è poi diventato fondamentale di li a breve quando sia Klose che Djordjevic erano fuori dai giochi nel momento clou della stagione biancoceleste: quello del preliminare di Champions. Talmente fondamentale da essere coccolato con lusinghe del tipo: “Ho sempre pensato che quello di prima punta fosse il ruolo giusto per lui” (cit. Pioli). Talmente vero che poi è arrivato Matri e Keita, in questo momento evidentemente il più in palla della rosa, parte sempre dalla panchina.
Il Bayer Leverkusen – Se c’era un aspetto su cui dover lavorare sin dai primi giorni di ritiro ad Auronzo di Cadore questo era senza dubbio l’aspetto psicologico. Era infatti evidente che il maggior rischio che si potesse correre, sfuggita la qualificazione diretta alla Champions e dato anche il malcontento di alcuni giocatori della rosa, fosse l’eventuale contraccolpo psicologico che poteva scaturire da un’eventuale eliminazione al preliminare. A maggior ragione quando l’urna ha regalato tra tutti quello che sembrava essere sulla carta (impressione poi confermata anche sul campo) l’avversario più abbordabile. Il match dell’andata ha illuso solo chi di calcio non ne mastica granché e valuta solo il risultato senza riconoscere gli evidenti segnali di pericolo che, emersi anche nell’esordio in campionato con il Bologna, hanno poi decretato l’infausta notte di Leverkusen. Dall’entusiasmo di sognare una notte al Camp Nou alla triste realtà di dover volare al gelo di Trondheim a due giorni o poco più dal derby. Musi lunghi, delusione, mercato praticamente chiuso e possibilità di scappare in altri lidi pari a zero. Il risultato? Rassegnazione. Quella che da quella notte di agosto ad oggi troppo spesso si è vista in campo.
Napoli, Milan…Roma – Prendere quattro gol dal Chievo non ci può stare. Diventa minimamente comprensibile dal momento che la partita segue solo di qualche ora il sogno infranto della Champions. Imbarcare gol a Napoli, prenderne tre dal Milan senza tirare in porta; giocare un derby senza aggressività ed in preda agli eventi. Questi sono i segni evidenti del pericolo (inutile definirli ancora dopo dodici giornate di campionato campanelli d’allarme) di consegnare l’ennesima stagione all’anonimato. Ennesima, si. Perché a questo punto c’è da chiedersi quanto le anche recenti vittorie in Coppa Italia od il piazzamento sul podio della scorsa stagione siano frutto della programmazione, di un progetto, o frutto del caso. Di annate fortunate in cui vivere sulle sventure altrui che durano però il tempo di un battito di ciglia. Effimere per quanto comunque fatte anche di episodi gloriosi (leggasi 26 maggio 2013).
Il fatto che Inter e Milan, lo scorso anno fuori dall’Europa, siano lì nelle prime posizioni, il fatto che Roma, Napoli e Fiorentina si stiano confermando agli ottimi livelli degli ultimi anni; il fatto che le sorprese anche in questa stagione non mancano, vedasi il Sassuolo. Sono tutti elementi che sommati all’annebbiamento tattico, fisico e mentale della squadra non rendono certamente fiduciosi in vista del futuro immediato. Intervenire sul mercato a gennaio serve a poco. E’ più facile arrivare ai Ciani e Novaretti di turno che ai Nesta od agli Stam. La speranza può essere solo quella che la svolta che non c’è stata al derby sia comunque veramente dietro l’angolo. Un filotto di cinque-sei partite per rilanciarsi magari trascinati da quei tre-quattro giocatori chiave, quelli di talento, intorno ai quali la società dovrebbe costruire una rosa all’altezza anziché covare quasi esclusivamente il desiderio di rivenderli a cifre astronomiche. Perché quest’ultimo è in fondo il comportamento tipico delle società satellite. E non deve esserlo dunque di una squadra gloriosa come la Lazio.