La lezione di Cardiff

A Cardiff contro il Real Madrid la Juventus non ha perso soltanto la finale di Champions League e la possibilità di conquistare l’ambito triplete. Ma, per come è andata la partita, ha anche perso un po’ la faccia e la sua credibilità come top club europeo.

I bianconeri erano sbarcati in Galles da dominatori del calcio italiano per aver vinto il sesto scudetto in sei anni e la terza Coppa Italia in tre anni; anche in Champions League avevano destato grande impressione, arrivando alla finale con soltanto tre gol al passivo, senza mai perdere ed eliminando avversari di grande blasone, in primis nei quarti il Barcellona annichilito a Torino e neutralizzato al Camp Nou; il tutto aveva generato uno stato di euforia che si avvertiva nelle dichiarazioni dei protagonisti ed aveva portato gli osservatori ad accreditare la Juventus alla pari con i rivali spagnoli per il successo.

Nel primo tempo la gara è stata sostanzialmente equilibrata, con il Real in vantaggio con un’azione corale conclusa chirurgicamente dal limite dell’area da Cristiano Ronaldo con Buffon in ritardo ed il pareggio della Juventus ad opera di Mandzukic con una prodezza personale al termine di un’azione poco lineare. Però dopo l’intervallo i bianconeri sono rimasti negli spogliatoi ed il Real ha dilagato, chiudendo la partita con un punteggio pesante che poteva esserlo anche di più.

Tante analisi sono già state fatte ed i giudizi tecnici sulla partita sono più o meno unanimi: Buffon dopo il primo gol è partito in ritardo anche sul secondo, anche se ingannato da una deviazione, e probabilmente ha detto addio al Pallone d’oro a cui giustamente ambiva. La celebrata BBC ha ballato come non mai (impressionante vedere Bonucci, ritenuto oggi tra i migliori difensori al mondo, rimanere immobile mentre Ronaldo si avventa sul pallone del terzo gol); gli esterni, poco avvezzi a difendere, sono stati annullati in fase offensiva dalle contromisure degli avversari. I due centrocampisti centrali della Juventus, di cui uno (Pianic) leggero e riciclato dal ruolo di trequartista e l’altro (Kehdira) probabilmente in condizioni fisiche precarie, sono mancati nel filtro per la difesa e nella fase di costruzione. Mandzukic dopo un primo tempo gagliardo è scomparso nel secondo preso nel vortice delle manovre madridiste sulla sua fascia. Higuain e Dybala, rimasti isolati, non hanno mai trovato lo spazio necessario per costruire qualcosa di pericoloso ed hanno solo fatto numero.

Ma come è possibile che una società così organizzata e strutturata come la Juventus si sia fatta trovare impreparata all’appuntamento più importante, su cui aveva impostato tutta la stagione a partire dalla campagna acquisti in cui aveva sacrificato Pogba (senza grandi rimpianti) per avere Higuain (con qualche perplessità) che assicurasse i gol necessari per vincere tutto?

Il fatto è che i successi facili ed esaltanti conseguiti fino ad aprile hanno convinto Allegri a modificare progressivamente lo schieramento della squadra; si è passati da un 3-5-2 roccioso, in cui sugli esterni trovavano spazio giocatori votati a difendere come Lichsteiner ed Asamoah e in attacco c’era alternanza tra Dybala, Mandzukich ed Higuain, ad un più spumeggiante 3-4-3 (o 4-2-3-1) con Alex Sandro, Dani Alves o Cuadrado sugli esterni ed i tre attaccanti in campo contemporaneamente.

Una formazione del genere può battere chiunque a tre condizioni: che i giocatori siano in piena forma ed in perfetta efficienza; che tutti giochino per la squadra aiutandosi reciprocamente; che gli avversari non siano altrettanto dotati.

Prima di Cardiff tutto è andato alla grande, con il campionato italiano vinto con largo anticipo, anche se si è avvertito qualche scricchiolio contro Napoli e Roma e la conferma del titolo è arrivata solo alla penultima giornata, e Barcellona e Monaco eliminate in Champions League; va però detto che gli avversari italiani non sono certo all’altezza della Juventus, che il Barcellona era in fase calante come dimostrato dalla sonante sconfitta di Parigi, poi rimontata in casa, che il Monaco sta crescendo ma il gap è ancora evidente.

Il Real Madrid, schierando un centrocampo di qualità ma solido in Modric, Kroos e Casemiro con Isco (il migliore in campo) a fare da fantasista ed attaccante aggiunto, due terzini in grado di difendere oltre che attaccare e due sole punte di ruolo (Cristiano Ronaldo e Benzema) ma tutti gli altri pronti alla proiezione verso l’area bianconera ha di fatto chiuso alla Juve tutti gli spazi di manovra soffocandone le fonti di gioco; le manovre della Juventus hanno subito perso fluidità e gli attaccanti sono rimasti isolati; i due centrocampisti non hanno retto l’impatto con la corazzata che avevano di fronte e non hanno fatto il filtro necessario al punto che perfino la BBC è andata in forte difficoltà: il risultato finale è così spiegato.

Ora la Juventus rimane la più forte squadra italiana, anche perché ha dietro la società più forte ed economicamente sana e, smaltita la delusione per la bruciante sconfitta, potrà riprendere il suo cammino verso la conquista del più importante trofeo europeo; in futuro però sarà forse opportuno rivestire i panni del pragmatismo e della modestia che invitano a non credere di poter sempre realizzare un gioco da play station ed a considerare anche con umiltà le caratteristiche degli avversari, per poter contrapporre la formazione più adeguata schierando anche, ove necessario, qualche terzino nerboruto e qualche centrocampista di sostanza in più.

C’è un’altra evidenza che possiamo portare a supporto di questa analisi; nel 2015-2016 la Lazio di Pioli, dopo un buon campionato concluso al terzo posto nell’anno precedente, ha affrontato il nuovo campionato con un 4-2-3-1 con tre fantasisti e due soli centrocampisti davanti ad una difesa a dir poco inadeguata; i risultati furono disastrosi e portarono all’esonero dell’allenatore. Il suo sostituto Simone Inzaghi ha dato nuovo equilibrio alla squadra chiudendo dignitosamente il campionato 2015-2016 e confermandosi nel successivo appena concluso; il culmine delle prestazioni dei biancazzurri è stato raggiunto nei tre derby con la Roma, quelli in Coppa Italia e quello del girone di ritorno del campionato, in cui i biancazzurri, inferiori sulla carta agli avversari, hanno bloccato il loro gioco nella propria metà campo per colpirli con attacchi fulminanti. Ma anche stavolta il successo parziale ha forse compromesso il risultato finale; i biancoazzurri, confusi da risultati che non sembravano raggiungibili, anziché usare una tattica simile a quella che aveva portato i successi sulla Roma hanno affrontato a viso aperto la finale di Coppa Italia con la Juventus che in venticinque minuti ha colpito due volte e chiuso la partita.

Da questi fatti si può trarre una conclusione semplice e banale; le partite di calcio non le vince necessariamente la squadra che schiera giocatori più forti sulla carta ma quella che riesce, in funzione dell’avversario che ha di fronte e del particolare momento della stagione, a trovare la tattica migliore per neutralizzarlo e ribaltare a proprio favore lo squilibrio dei valori in campo. Semplice e banale ma varrebbe la pena di tenerne conto.