Correva l’anno 1973. Era il 28 novembre 1973, per la precisione, quando lo stadio Olimpico di Roma si trovò a ospitare una finale di Coppa Intercontinentale pressoché assurda. Una gara unica, prima volta in cui il format venne stravolto non concedendo la doppia finale: ne beneficiò lo spettacolo, perché la Juventus – che manco avrebbe dovuto esser lì – colpì due traverse, sbagliò un rigore e infine perse la gara che consacrò il miglior Independiente della storia. A dirlo fu l’influente FourFourTwo svariati anni dopo, sentenziando come il quadriennio 1971-75 avesse regalato al calcio la miglior squadra argentina di sempre. Curioso come oggi non tutti concordino: se non la migliore, però, l’Independiente è certamente una delle più titolate (16 campionati e 9 coppe, 18 trofei internazionali, 7 volte campione di Copa Libertadores). Il mito del Rey de Copas nacque principalmente nel 1973, quando Humberto Maschio batté i cileni del Colo Colo all’Estadio Centenario di Montevideo, facendo del Diablo Rojo la squadra capace di sollevar più volte la Libertadores.
Fa specie ricordare oggi quei momenti, visto che attualmente l’Independiente non se la passa bene. I postumi del 15 giugno 2013 restano ferite cocenti sulla pelle di un club che mai in 108 anni di storia era retrocesso prima. Da quando quella striscia è stata frantumata, da Orgullo Nacional l’Independiente s’è scoperto fragile vittima della crisi economico-istituzionale e la maggior parte dei tifosi oggi concorda nell’affermare che senza l’ingaggio del dt Omar De Felippe sarebbe stato toccato il fondo. Smaltita la cocente delusione, «Independiente regresó y siguió su fiesta con una caravana triunfal»: un solo anno di purgatorio bastò per tornare immediatamente in Primera División grazie a un paio di volti noti al grande pubblico: Julián Velázquez, difensore promesso al Genoa ma che finì al centro di un dibattito internazionale con tanto di FIFA messasi di mezzo, Facundo Parra, che a Bergamo non lasciò ricordi indelebili, infine Daniel Gastón “Rolfi” Montenegro, la cui leadership fu di capitale importanza per togliersi rapidamente dalla pozzanghera.
Come giocava quell’Independiente
Sebbene sia concreto il rischio di offuscare il valore di quell’organico in virtù dell’intercontinentale vinta nel 1984, contro il Liverpool in Giappone, in Argentina ricordano volentieri il 28 novembre 1973. Così nel 2013 il quotidiano argentino La Nación scriveva «Hace 40 años, Independiente conquistaba el Mundo en Roma», perché prima di ogni altra cosa quel successo fu una maledizione spezzata. Detto del modo assurdo con cui fu alzato il trofeo (la Juventus colpì due traverse e sbagliò un rigore), i Diablos Rojos arrivavano a Roma con un bagaglio pieno di delusione: sia nel 1964 che nel 1965 erano stati eliminati in Intercontinentale dall’Inter di Helenio Herrera, nel 1972 incontrarono l’Ajax di Cruyff e all’andata non andò neppur male (1-1). Il problema è che ad Amsterdam finì diversamente da Avellaneda, l’Independiente uscì con un pesante 3-0 e familiarizzò col sapore della sconfitta. Per liberarsi da quel tormento, Roberto Oscar Ferreiro, detto “Pipo”, attuò una rivoluzione: «Le squadre sono stabili, con pochi trasferimenti, si può fare un lavoro a lungo termine coi giocatori. Lo schieramento tattico non è cambiato dagli anni Sessanta, quando abbiamo incontrato l’Inter abbiamo giocato con due difensori centrali».
Brillante e unito, il suo Independiente riscosse successo per aver confermato il 4-3-3 della precedente gestione schierando però contemporaneamente il trio Balbuena-Bochini-Bertoni. La rete decisiva, quel 28 novembre 1973, fu realizzata dal secondo, Ricardo Enrique Bochini, all’epoca 19enne uscito dalle giovanili dell’Independiente. Di lì in poi avrebbe dedicato al club l’intera sua carriera, vincendo tanto (5 Libertadores, due Coppe Interamericane, due Intercontinentali e il Mondiale ’86), guadagnandosi l’ammirazione di Diego Maradona – che considerava El Bocha il suo idolo – e l’ingresso nella top 3 dei Diez albicelesti tra Settanta e Ottanta, proprio insieme a Maradona e Norberto Alonso. Bochini all’Olimpico segnò all’80’, dopo che la Juventus aveva dominato in lungo e in largo.
Come giocava quella Juventus
La Champions League l’aveva vinta l’Ajax, che nel 1972 aveva già incontrato l’Independiente in Intercontinentale. Visto che i Lancieri rinunciarono a disputare la finale, ufficialmente per gli ingenti costi della trasferta, il posto degli olandesi fu preso dalla Juventus sconfitta nella finale di Coppa dei Campioni a Belgrado, il 10 maggio 1973, con gol decisivo di Johnny Rep. Michels era ormai al Barcellona, il rumeno Ștefan Kovács aveva comunque avuto la meglio sui bianconeri allenati dal cecoslovacco Čestmír Vycpálek. A Torino erano anni di campioni, Dino Zoff tra i pali, Morini e Salvadore, Cuccureddu e Anastasi, Altafini e Bettega: nel novembre 1973 la Juventus era sensibilmente favorita sull’Independiente pure perché in primavera aveva ottenuto il suo 15° scudetto – secondo consecutivo – arrivando pure in finale di Coppa Italia, persa col Milan ai calci di rigore. Il pubblico del Delle Alpi aveva un più che lecito diritto di sognare, visto che nel 1971 era cominciata la presidenza Boniperti, nota per aver donato al calcio la prima squadra al mondo a vincere tutte le competizioni UEFA e, in seguito, tutte le competizioni per club. In 15 anni, la Giovin Signora festeggiò 9 campionati, 3 Coppe Italia e 6 trofei internazionali, tra Vycpálek, Carlo Parola e Giovanni Trapattoni. Furono peraltro gettate le fondamenta – rigorosamente bianconere – per il Mondiale 1982 vinto da Bearzot in Spagna.
Indubbiamente, all’Olimpico nel 1973, un pezzo di Juventus era rimasto con la testa a Belgrado. Il gol di Rep che consegnò le grandi orecchie agli ajacidi era infatti da annullare. «Mi impedì di saltare a dovere, mettendo il braccio sinistro sulle mie spalle e tenendomi giù» avrebbe raccontato Silvio Longobucco a La Gazzetta dello Sport, ma 36 anni dopo, nel 2009. Alla fine comunque a Roma non c’era l’Ajax campione bensì la Vecchia Signora, finalista sconfitta, con le sue pretese: la Juventus accettò infatti di partecipare alla finale solo se questa fosse stata giocata in campo neutrale a Roma. Il motivo alla base dell’ostracismo bianconero consisteva nella paura di viaggiare in Argentina visto che nel 1969 la trasferta del Milan a La Bombonera fu una sostanziale raffica di colpi proibiti: alla fine l’Estudiantes vinse 2-1, ma con due espulsi e con gli avversari presi di mira (pallonate, zigomi fratturati e le percosse subite dai tifosi locali). Così da Torino era partito un avvertimento, «debido a la mala reputación de los clubes sudamericanos generando violencia en territorio sudamericano».
Una finale da sogno
Contestualizzando quel periodo, tra i progressi nella ricerca aerospaziale – vennero lanciate la 13° e 14° sonda su Marte – il Sudamerica viveva una situazione di equilibri in rapido divenire. L’11 settembre 1973, in Cile, Augusto Pinochet rovesciò il governo col suo golpe. Esattamente 22 giorni dopo l’Argentina viveva per la terza volta il peronismo, grazie all’impressionante 62% con cui le elezioni posero alla presidenza della nazione il tenente generale Juan Domingo Perón. Nel calcio era appena cominciata l’ascesa di César Luis Menotti, “El Flaco” alla guida del sorprendente Huracán prima di prender le redini della nazionale albiceleste e vincere il Mondiale 1978.
Quella del 1973 restò comunque una partita unica. «Bochini ed io eravamo ancora molto giovani, segnare un gol del genere ha aiutato molto le nostre carriere, prima non giocavamo neppure troppe» avrebbe raccontato Bertoni. Sarebbe cambiato il format della Coppa Intercontinentale, spostata in Giappone tra 1980 e 2004 per via della sponsorizzazione della Yoyota (Tokyo, poi tre volte Yokohama). Sarebbe cambiata la storia dell’Independiente, arricchitasi di nuovi successi. Indimenticabile però quello di Roma, perché spesso i tifosi del Racing Avellaneda sfottevano i concittadini per via dell’Intercontinentale da loro vinta nel 1967. All’Independiente mancava quel trofeo, come raccontò Pepé Santoro al quotidiano argentino Olé: «Ya se nos había escapado tres veces la Intercontinental y había que ganarla». «L’Intercontinentale ci era già sfuggita tre volte e dovevamo vincerla».