“Pillola azzurra o pillola rossa?” chiede Morpheus a Marco Materazzi, seduto su una poltrona Chesterfield amaranto coi bottoni ossidati da decine di inverni. “Pillola rossa” esclama Marco, desideroso di conoscere la Verità. Tra il navigare ad un palmo dalla costa e l’avventurarsi nell’oceano non ha mai avuto dubbi: Marco punta al cuore delle cose, la superficie è roba di chi ha paura.
Sono passati undici anni dalla notte del 9 luglio 2006. Il cielo di Berlino redime i mugugni dei tribunali nel pieno di Calciopoli. L’Italia è campione del mondo per la quarta volta ma è ancora troppo presto per cogliere il senso di quel successo: come un’ultima luce prima del buio profondo, una generazione di talenti tocca l’apice prima che la giustizia sportiva ne abbatta i pilastri, dando un colpo di spugna al calcio italiano, così come eravamo soliti conoscerlo. L’effetto della storia piega anche Marco Materazzi. L’istantanea che consegna al mondo è una smorfia di dolore: il suo petto che implode sulla testata di Zinedine Zidane.
E’ triste pensare come la legacy lasciata da Materazzi e Zizou a partire da quella notte sia altamente complementare. Guardando il video di quell’episodio le dinamiche sembrano chiare: qualche parola di troppo tra i due, Zizou che si ferma, carica e infilza come un toro. Eppure col tempo sarà Marco a rivestire i panni del cattivo. La critica andrà alla ricerca delle offese bisbigliate, dipingendole come il vero reato. La fedina di Zidane resterà quasi pulita, quella di Marco macchiata per l’ennesima volta.
Un’operazione intuitiva, accomodante, se pensiamo all’iconografia dei personaggi in questione. Da un lato Zizou, quello muto, la cui retorica sublime passa unicamente dai piedi, dall’altro Marco, il prototipo del mascalzone italiano che con mezzucci e randellate s’è fatto strada oltre i propri limiti. L’episodio ricuce le distanze: i ruoli quasi s’invertono, il sentimento di disagio si fa insostenibile. Meglio ritornare alle convenzioni.
Basta accedere a Youtube, digitare “Marco Materazzi” e le prime voci che appaiono sono dei tributi in cui, bene che vada, al suo nome è affiancata l’etichetta di Psycho o Killer. Quello che succede su internet racchiude il senso comune della vita al di fuori: chiacchierando in un bar, anche con diverse generazioni di distanza, è facile convenire sulla predisposizione criminale di cui Marco ha dato prova nel corso della sua carriera. Che una tale interpretazione prenda campo all’estero è roba quasi fisiologica. E’ il lascito alla tradizione nostrana che non gli rende giustizia.
Di giocatori duri e cattivi ne sono passati nella storia del calcio, ma pochi come Marco hanno deviato da quel binomio sacro che affianca la violenza ad un codice di rispettabilità. Marco ha spesso valicato quel confine mostrando tratti di un’aggressività diabolica, incapace di generare empatia ad ogni latitudine umana, anche per chi prova a proiettare nel calcio un’immagine sincera di virilità. Forse per quel suo modo di volerle dare senza mai prenderle, che è un po’ come sottrarsi alle regole del gioco, o per l’arte della scorciatoia, del trucco e dell’inganno, praticata come un unico insostituibile mantra.
Sono queste le premesse ricercate nel duello con Zidane, che ne hanno travolto l’immagine annullando tutto il resto. I due gol nel mondiale di Germania, il rigore tirato con la solita disinvoltura nella finale contro la Francia, sono preda del buio. E ancora i cinque scudetti consecutivi con la maglia dell’Inter, le stagioni da debuttante col Perugia, due atmosfere diverse come tappe bilanciate di un romanzo di formazione, in cui l’irruenza del giovane ha lasciato spazio ad una cattiveria mediata, forgiata dai successi e dalle primavere. Senza dimenticare i gol: 12 nella stagione 2010/11 a Perugia, record in Serie A per un difensore, e i 10 nel 2006/07 con i nerazzurri. Quasi a voler ribadire che nel primo caso non si trattava di fortuna: Marco ha collezionato caviglie e reti con lo stesso piglio, sdoppiandosi tra rudezza ed eleganza.
Per non parlare poi del silenzio di quando giocava poco perché le nuove leve incalzavano e la sua leggenda, mai ingombrante, serviva ormai soltanto da esempio. Lui, abituato al chiasso delle scene, s’è seduto in panchina con onore, rinunciando a scampoli di gloria altrove, lontano dal teatro in cui è diventato grande. Ha giurato fedeltà, ma la memoria collettiva non l’ha sempre ripagato con la stessa moneta.
Tanto di Marco è passato in secondo piano perché è più facile ricordare un’immagine, specie se di grande potenza comunicativa, che i tanti indizi lasciati sulla sua strada. Materazzi non è caduto perché ha preso una testata. Materazzi cade ogni giorno se quanto ricordiamo di lui è soltanto una smorfia di dolore.
Marco sceglierebbe sempre la pillola rossa. Forse, dovremmo farlo anche noi.