“Il mio tecnico ideale, lo sanno anche i muri, è Carlo Ancelotti. Con lui c’è un feeling che va oltre il campo. Mi piace come affronta le situazioni, come ti tratta dopo una vittoria o dopo una sconfitta“. Sono le parole di Hernan Crespo rilasciate in una recente intervista ai microfoni di Sky. In questa semplice affermazione probabilmente risiede il segreto dell’allenatore del Real Madrid, che pochi giorni fa ha vinto il Mondiale per Club, l’ennesimo trofeo di una carriera praticamente perfetta. Ancelotti, infatti, incarna la giusta sintesi tra le due tipologie di allenatore vincente dell’ultimo decennio. La prima, quella “Mourinhana”, è composta da persone in bilico costante tra l’autorevolezza e l’autorità, che arrivano in città, spremono un gruppo di giocatori fino ad estrapolarne tutte le energie mentali possibili ed immaginabili, spesso vincono, e dopo due anni lasciano il club, a volte vengono cacciati, e quel che rimane è un bilancio malridotto ed una squadra da ricostruire. L’altra corrente, che è ben rappresentata da Rafa Benitez, accoglie tra le sue fila uno stormo di teorici, che conoscono la materia alla perfezione, curano i dettagli e trascorrono notti insonni alla ricerca del pezzo mancante, ma dopo pochi mesi risultano simpatici come i professoroni universitari che affollano le aule dei convegni dottrinali: poco, pochissimo. In questo senso, “Carlo Magno” e non Mourinho, potrebbe rivelarsi il vero antagonista di Guardiola. I due infatti sono allenatori completi e vincenti, con la differenza che il primo predilige un gioco offensivo più votato alle verticalizzazioni e all’uno-due diretto verso la porta avversaria rispetto al possesso palla paziente ed estenuante praticato dal secondo.
Ancelotti ha dimostrato di sapersi sempre adattare e di essere in grado di mettere in discussione le proprie idee, vincendo due Champions al Milan con” l’abete” (4-3-2-1), e spostandosi gradualmente verso il più moderno 4-2-3-1. D’altronde non si vincono per caso due Champions con la stessa squadra da giocatore prima e da tecnico poi, per tornare a casa, all’età di 55 anni, e potersi godere una bacheca che non vantano neanche i luminari centenari di questo sport. L’unico neo della sua lunga ed onorata carriera, è forse la valutazione di un altro personaggio molto attuale queste settimane che ha da poco annunciato l’addio al calcio giocato, ovvero Thierry Henry. Il ragazzo però era giovane, e come dichiarò anche Luciano Moggi, Ancelotti credeva in lui ma durante quella stagione non c’è stata la possibilità di dargli più spazio.
King Carlo ha dimostrato di essere un bravo psicologo e un ottimo collega: ha risolto in un anno il complesso madrileno della decima Champions League, ed in carriera è riuscito ad andare d’accordo con i Tanzi, gli Agnelli, Berlusconi, Galliani, Abramovic, gli sceicchi e infine Florentino Perez. Quasi sempre serio e misurato, all’occorrenza schietto e popolano, quel suo sopracciglio statico è il tocco espressivo che gli ha sempre permesso di sembrare l’uomo giusto al momento giusto, quasi uno di famiglia, da Reggio Emilia a Londra. E in ogni situazione, dopo aver degustato insieme a lui un buon salame accompagnato da un vivo Lambrusco, chiunque ha finito per chiamarlo Carletto.