Se l’allenatore non fosse uno dei mestieri più ingrati al mondo, a perenne rischio di critiche e frecciate, allora sarebbe lecito considerare che Gennaro Ivan Gattuso sia un po’ sprecato su una panchina. E se non fossero abbastanza il temperamento ereditato dalla terra di Corigliano Calabro, la grinta che ha sempre contraddistinto la sua carriera da mediano e quella rabbia agonistica espressa in campo, allora verrebbe da dire che le montagne russe di Milanello rischino seriamente d’inghiottire in un tourbillon letale chiunque non vanti una personalità sufficientemente forte da governarle. D’emblée un allenatore deve convivere coi rischi, ebbene Gennaro l’ha imparato. Alla prima esperienza di un certo livello, catapultato in un arcobaleno rossonero con tendenze grigiastre di pari passo con la cupezza delle nubi varesotte, Gattuso ha però convinto tutti. Ha accettato la pressione, ha affrontato a petto in fuori le problematiche scoppiate nel corso del lavoro e oggi il bilancio è più che positivo: sì, probabilmente merita la panchina del Milan.
Prima di Gattuso: il caos
Che poi non è un Milan qualsiasi quello odierno, anni luce lontano dai fasti vissuti sotto la presidenza Berlusconi. Un Diavolo sbiadito, che si ciba di blasone irripetibile e di frequenti dissidi con l’Uefa. Ecco qui il grande merito di Gattuso: l’aver restituito credito a un progetto sulla carta fallimentare, che nella sua consistenza molle arrivava a contaminare la carriera di volti non da poco del panorama calcistico italiano (Leonardo Bonucci? Gonzalo Higuaín?). Gattuso s’è specchiato in una pozza torbida e l’ha ripulita pian piano, arrivando a farvi abbeverare Krzysztof Piatek e magari pure quella Coppa dei Campioni che manca dal 2014. Allora l’Atlético Madrid sbeffeggiò i rossoneri, il cui allenatore era Seedorf (già compagno di Gattuso), a sette anni dall’oro ateniese.
Lo scotto fu tale che esattamente cinque anni fa – correva l’anno 2014, 19 febbraio – i madrileni interruppero il processo di ricostruzione nel post Allegri, saltato per via della funesta tempesta neroverde di un Domenico Berardi da incubo. Da allora una lunga lista di progetti sposati, premiati, voluti arditamente e poi accantonati ai primi segni di cedimento. Un vortice a spirale che non ha risparmiato nessuno: Filippo Inzaghi, Sinisa Mihajlovic, Christian Brocchi, Vincenzo Montella, addirittura Mauro Tassotti che in un’occasione sedette sulla panchina del Diavolo (dettaglio che amplifica la confusione presente nell’ambiente rossonero).
Il primo Gattuso: la polvere
Piano però con gli elogi. Gennaro Gattuso era partito male al Milan, e con questo lo si premette. Insulti gratuiti, perplessità di chi vedeva in lui l’ennesimo mister di cartone, da metter sulla graticola salvo trattener se le cose fossero dovute andar bene. Un nome come un altro, giusto per aver l’ebbrezza di scommettere su un profilo nuovo. Un azzardo per il Milan ma un azzardo doppiamente pesante per chi mise piede a Milanello con un curriculum fatto di gioie e dolori, l’esperienze formative a Palermo e Pisa ma pure i conti fatti senza l’oste all’OFI Creta, in un’isola prosciugata dalla crisi e in una situazione tragica dal punto di vista gestionale. Ennesimo traghettatore, in grado magari di salvarsi fino in primavera, oppure capro espiatorio da dare in pasto ai poco compiacenti giornali: di questa biforcazione inizialmente Gattuso imboccò la strada sbagliata, chiaramente per meriti non suoi. Era il 3 dicembre 2017, un Benevento-Milan passato alla storia immemore per il gol di Alberto Brignoli valso (in ordine) il 2-2, la mesta annunciazione di Mauro Suma, il primo punto dei giallorossi in Serie A dopo 15 giornate e l’ennesima vagonata di critiche.
In quel contesto era dura trovar colpe a Gattuso, che tecnicamente non aveva avuto tempo per lavorare, eppure l’aria satura di arrabbiatura arrivò perfino a bussargli alla porta. Rino in quell’occasione stette zitto, accettò pure una sconfitta in casa del Rijeka in Europa League – con la qualificazione già in pugno, va detto – e al successivo impegno rifilò un ko al Bologna ma rimediò pure un sonoro 3-0 in casa dell’Hellas Verona. Quattro giorni prima gli scaligeri avevano incassato il medesimo punteggio. E invece in Serie A tradirono i big: Suso, Romagnoli e Cutrone furono opachi, lo spagnolo perse la testa e fu espulso, Antonio Caracciolo, Moise Kean e Daniel Bessa calpestarono il Milan. Il peggio era lì: Gattuso perse in casa contro l’Atalanta e a Natale riordinò il cassetto.
Il secondo Gattuso: la rivincita
Riscoprì Patrick Cutrone poi decisivo nel derby di Coppa Italia contro l’Inter, e più in generale Gattuso impresse una svolta. Da allora, 28 gare in più competizioni e cinque sconfitte (due contro l’Arsenal, due contro la Juventus e una contro il Benevento). Gli infortuni non diedero pace, ma pure senza Conti, Biglia e Romagnoli era arrivata un’inattesa quadratura del cerchio. Profanò l’Olimpico, battendo Roma in campionato e Lazio nella semifinale di Coppa Italia, diede pure prova di una dialettica non da tutti definendosi il più scarso allenatore della Serie A. Comunicazione semplice, lungi dagli aforismi di Mihajlovic o dai sofismi di Montella, ammissione implicita di inesperienza ma non per questo scelleratezza. Gattuso da all in, fossimo nel poker, perché dinanzi a un punto interrogativo grosso come un grattacielo l’ingegner Rino s’è messo a lavorare dalle fondamenta. Ha raddoppiato l’effetto della gavetta, scalando l’Olimpo delle preferenze.
Serve a questo punto aprire una postilla. Gattuso fu scelto da Mirabelli per sostituire Montella, poi a un certo punto la dirigenza rossonera si spaccò polarizzandosi in due differenti prospettive e al loro interno arrivò il tanto celebrato passaggio di proprietà. Non più Mirabelli, Fassone e Yonghong Li ma il fondo Elliott con Paolo Scaroni in qualità di presidente, Ivan Gazidis suo braccio destro e Paolo Maldini come testimone nostalgico di un’era lontana. Il discorso è che anziché tendere a un miglioramento si è passati a un nuovo salto nella polvere: la sentenza Uefa paventata in estate ma arrivata ribassata a dicembre, l’instabilità continua e pregressa, i continui nomi di possibili sostituti (Ancelotti, Conte, Leonardo, Donadoni, Guidolin) ogni qual volta Gattuso fallisse una gara.
Il terzo Gattuso: dentro il luna park
L’idea che un girone di ritorno più che positivo non sarebbe magari bastato alla riconferma di Gattuso la dice lunga. Idilliaci sogni di Champions con una realtà disastrata, disossata, spolpata e troppo grezza per esser rifinita come la proprietà sognava. Continui upgrade in un sistema obsoleto, migliorie inutili alla luce di un equilibrio trovato dopo quattro anni di peripezie. Tra i flutti navigava ancora Gattuso, tra l’incredulità il capitano Bonucci abbandonava la nave per far ritorno a Torino con la coda tra le gambe, poi i primi giubbotti di salvataggio (Caldara, Higuaín) gettati in mare troppo presto. Piazza Duomo gremita a inizio agosto, sugli allori di un piratesco tesoro rinvenuto nel relitto del calciomercato.
In porta, Donnarumma. In difesa, Conti, Caldara, Romagnoli e Rodríguez. In mezzo Kessié, Biglia e Bonaventura. In avanti, Suso e Calhanoglu alle spalle dell’argentino. L’unico neo pareva proprio Gattuso, nome che solleticava meno soddisfazione al cospetto di tanta qualità in campo. Forse per l’innegabile fascino di cambiare allenatore, forse per l’abitudine di trovarsi nuovi mister ogni estate, forse ancora per maniacale insoddisfazione, Gattuso faceva storcer i nasi sotto la Madunina. Incredibile che a oggi, 19 febbraio 2019, lo scenario si sia capovolto. Il mister è saldo sulla panchina mentre di quella formazione sopra ipotizzata non restano che infortunati, declassati, partiti in inverno e calciatori di dubbia fattura.
Il quarto Gattuso: uber alles
La chiave del successo sta nell’allenatore. Semplice, caparbio, tosto. Uno che non ha paura di sbranare i giornalisti alla prima parola sbagliata nei confronti della squadra. Uno che sappia osare (e un centrocampo a tre composto da Calabria, José Mauri e Calhanoglu ne è la prova), uno che a conti fatti sappia dare un’identità al Milan. Non v’erano riusciti molti, probabilmente nessuno: pure Mihajlovic e Montella, arrivati in Lombardia entrambi dalla Genova blucerchiata con ottime referenze, erano stati sconfessati dalla realtà dei fatti. Non che Gattuso sia stato perfetto, ma gli si può imputar poco, forse solo l’eliminazione dall’Europa League forse, anche se va ricordato che al Karaiskakis l’arbitraggio fu duramente criticato. Così anche in Supercoppa Italiana a Jeddah, contro la Juventus, arrivò una sconfitta che però rese l’idea di un Milan quantomeno alla pari dei bianconeri. Roba da panico, pensarlo in autunno.
Entrando in una visione micro, anche qui l’impatto di Gattuso è stato decisivo. Abilissimo nel mascherare i mal di pancia di un ozioso Higuaín e altrettanto caparbio nel lanciare Krzysztof Piatek. Da applausi l’inserimento di Lucas Paquetà nell’undici meneghino, quando il brasiliano avrebbe potuto esser l’ennesimo pacco verdeoro arrivato a Milano, con lo spettro di Gabigol sulle sue spalle. Gattuso leader, Gattuso consolatore di un Gigio Donnarumma passato dalle papere alle parate d’oro, Gattuso motivatore di un Davide Calabria mai cresciuto in questo modo – tanto da lottare con Conti per la titolarità – e ancora Gattuso psicologo nell’infondere sicurezza a Romagnoli. Gattuso difensore di Calhanoglu quando il il turco faticava, Gattuso stimolatore di Cutrone, Gattuso demiurgo nella superba trasformazione di Bakayoko da brutto anatroccolo a perno insostituibile. I 40 milioni pendenti sul suo riscatto sono passati da oggetto di sbeffeggiamenti a cifra quasi inferiore al rendimento dell’ex Chelsea.
Concludendo, i meriti di Gattuso sono questi. Bravissimo nel cercare il dialogo, nel premiare il lavoro negli allenamenti e nel caricare i ragazzi prima, durante e dopo ogni gara. Grazie a lui la positività a Milanello è impagabilmente tornata, laddove non si respirava da anni. Chissà che magari la musichetta della Champions League non possa far lo stesso.