L’ultima giornata di campionato e l’addio alla Roma di Francesco Totti coincidono con un caldo e cocente pomeriggio, col sole che fatica a tramontare e un venticello piacevole che smuove le acque del Tevere, portandosi via un po’ l’afa precoce di fine maggio. Nei pressi del Foro Italico, ma anche per le vie affollate del centro e nelle stradine silenziose di periferia e, ancora, sui tram e nelle metropolitane, sui motorini in velocità, nelle auto in mezzo al traffico, all’interno delle case popolari e nelle villette nelle zone residenziali, vige un unico dress code, una regola tacita ma obbligatoria: la maglia giallorossa. Ma non è una domenica come le altre, nessuno ha acquistato il biglietto per assistere ad una partita qualunque e il pubblico delle grandi occasioni (settantamila spettatori) non è lì per sostenere la squadra nella corsa al secondo posto. I bambini che adorano El Shaarawy e i ragazzini che apprezzano la personalità eclettica di Florenzi, per un pomeriggio, si sono accodati ai nostalgici: il dress code, per la verità, non è la shirt del club di Trigoria. È la casacca del capitano. Un corteo bicromatico con un unico e solo protagonista: Totti. Le due sillabe che compongono il suo cognome sono ovunque e a giudicare dall’abbigliamento dei tifosi, qualche turista deve aver pensato che all’Olimpico non ci fosse Roma-Genoa, ma Totti-Genoa.
Eppure il capitano non parte nemmeno titolare. Spalletti lo aveva già detto, si era pronunciato nei giorni scorsi, sottolineando che l’obiettivo restava la Champions. Così il match – seppur vivo e tutt’altro che una passeggiata per i padroni di casa – non è che un’estenuante attesa; ogni cosa continua a girare attorno a quelle due sillabe. Sono tutti in trepidazione, ma è un’agitazione malinconica. Il cambio con Salah e l’entrata in campo del Pupone segnano l’inizio dell’ovazione della curva e dello stadio intero. Ad ogni tocco, ogni passaggio e ogni cross del numero 10, c’è un boato da togliere il fiato. Il trionfo al 90′ e il secondo posto agguantato passano in secondo piano, alla fine della partita nessuno sta pensando al risultato. C’è da crogiolarsi nella nostalgia di quello che è stato e mai più sarà: lo sanno i romanisti, lo sanno i compagni di squadra di Francesco, lo sa la sua famiglia e lo sa principalmente lui, il capitano eterno. E infatti piangono tutti, da chi lo ha visto giocare che era soltanto un ‘pischelletto’ a chi ha avuto la possibilità di godere delle sue magie soltanto negli ultimi anni: grandi e piccoli si emozionano e non c’è alcuna differenza fra loro. Non esiste distinzione tra chi mastica calcio da sempre, commentando tutti i lunedì mattina al bar da 27 anni le prodezze di Francesco e chi nel 2001, alla vittoria dell’ultimo scudetto, non era ancora nato.
Nemmeno il tempo di fare la doccia e di darsi un tono, di mettere una shirt pulita o di occupare un posto preciso in quel manto verde che è stato croce e delizia della sua intera vita, il capitano si ritrova un po’ imbarazzato e goffo, come se non avesse mai fatto le prove generali per quel momento così importante. Il contesto è pazzesco, ma il soggetto fa di tutto per non rendere fastoso e pomposo lo spettacolo: le parole semplici, lo sguardo basso e commosso, la timidezza e la paura nascoste dietro al continuo vagare per il campo. Tutto così naturale, puro e genuino che verrebbe voglia di abbracciarlo. E l’atmosfera suggerisce proprio questo: non c’è nulla di formale e di sfarzoso, tutti e settantamila sono lì ad abbracciarlo e a rincuorarlo, perché “Totti è la Roma” e fra questi due amanti inseparabili sembra esserci un’armonia divina, soprannaturale, intoccabile. Questo filo che li tiene uniti è di una bellezza quasi trascendentale e permette agli spettatori di essere meno affranti, perché soltanto chi è romanista ha la fortuna di poter assistere ad una scena così e di poter provare simili sensazioni.