Il Portogallo ha trionfato senza il suo più illustre condottiero, trovando nell’uomo qualunque il suo inusuale protagonista. Éderzito António Macedo Lopes è destinato a cadere nell’oblio, senza spazio nei grandi annali della memoria. Porta nei parastinchi un guanto bianco con cui ha schiaffeggiato l’Europa e le logiche canoniche del mito. Viene da una terra lontana, ed è il prodotto di una vita tormentata.
O feitiço
Il Portogallo è una striscia di terra che si estende longitudinalmente per 700 chilometri fiancheggiando l’Oceano Atlantico, mentre soltanto 200 sono i chilometri che intercorrono tra la Meseta Iberica e il mare. Uno stato quasi integralmente adagiato sugli abissi, posizionato nell’estremo occidente dell’Europa continentale, con il capo rivolto verso le calde luci del tramonto. La struttura morfologica ha plasmato l’indole della sua popolazione, alimentandone il desiderio di trascendenza. Sotto i raggi tenui del crepuscolo che si perdono indistintamente nell’oceano, un intero popolo ha ammirato avidamente l’orizzonte, cercando di appropriarsene.
A partire dal XV secolo il Portogallo ha iniziato a tessere un fitto dominio coloniale, reinterpretando l’estromissione dall’Europa (determinata da ragioni prettamente geografiche) in chiave costruttiva. Non disponendo di un punto di sbocco sul Mar Mediterraneo, ha lentamente scandagliato le coste dell’Africa occidentale costruendo un impero di sostentamento economico alternativo ed esclusivo. L’incontro con le popolazioni indigene è stato traumatico, in un’ottica decisamente monodirezionale: gli esploratori hanno profanato l’autenticità dei culti in prossimità dell’Equatore, imponendo una conversione coatta ai valori del più forte.
L’aspetto probabilmente più curioso riportato dai viaggiatori lusitani nei propri diari di bordo, è l’attaccamento ossequioso, quasi morboso, delle popolazioni autoctone nei confronti di idoli grossolani ai quali veniva attribuito un potere magico o spirituale. Le pratiche religiose nell’Africa nera si fondavano sull’adorazione di Fada, pietre e amuleti ritenuti depositari di una forza invisibile, sovrumana. Feitiço era il vocabolo utilizzato dai navigatori portoghesi per designare questi manufatti inanimati, termine che trae origine dal latino factitium (fattizio), quasi ad indicarne etimologicamente la natura artificiosa e materiale. Questo approccio alla religione che trasuda pragmatismo e si alimenta attraverso un tangibile rimando terreno, trova una corrispondenza anche nella fede continentale. La venerazione delle reliquie è l’esempio più vicino alla nostra cultura che evidenzia come la necessità di sublimazione non sia un fenomeno contingente ma trasversale. Il feitiço è un àncora che rinsalda il credo. Un punto di contatto tra fisica e divino. Un simbolo che esalta il valore del rimando.
Il 22 dicembre del 1987, nell’attuale Guinea-Bissau, ex colonia portoghese, è nato Éderzito António Macedo Lopes. All’età di undici anni Éder ha intrapreso un viaggio fidandosi ciecamente del mare. Dal cuore dell’Africa equatoriale è partito alla volta del Portogallo, tracciando una rotta inversa rispetto a quella degli esploratori lusitani ma segnato nell’intimo dalla stessa sete di conquista. Nel mezzo c’era sempre lo stesso oceano sconfinato che abbraccia i colori del tramonto, depositario di dolore e fonte di speranza.
L’appuntamento con la gloria
Quando Fernando Santos lo ha messo il campo al 79’ della finale di Euro 2016, in pochi sapevano chi fosse Éder. Nella tragica capitolazione di Cristiano Ronaldo il suo ingresso è passato quasi inosservato, oscurato dall’aurea mitologica del calciatore più forte del mondo. Éder ha iniziato a scandagliare avidamente ogni porzione del campo, cercando una sua collocazione, un suo porto fedele. Costretto a barcamenarsi tra i vigorosi flutti dei difensori francesi, ha tenuto botta come un’imbarcazione solida, ben tarata, costruita per resistere alle maree più violente. Éder è parso subito il prototipo del centravanti old school, agli antipodi della tradizione lusitana, ontologicamente predisposto ad assorbire l’irruenza, ma dalle movenze goffe e scoordinate, tipiche di chi fatica a trovare un equo compromesso tra prestanza fisica e abilità tecnica. Quando Fernando Santos lo ha messo in campo aveva bisogno proprio di quell’equilibrio mancato, di quelle mosse tanto impacciate quanto funzionali ad aprire varchi per i funambolici esterni. Éder però è andato oltre. Nella più inflazionata corrispondenza tra calcio e narrativa, si è lentamente cucito addosso i tratti dell’anti-eroe.
Minuto 109. Éder riceve sulla trequarti da João Moutinho. Percettivamente la situazione in cui si trova è la stessa che ha già affrontato un paio di volte da quando è entrato: spalle alla porta, Koscielny avvinghiato in marcatura, e quell’indomita attitudine di resistenza agli urti. Pare quasi che per stare in piedi abbia bisogno di un sostegno, e che soltanto attraverso il contrasto fisico e violento riesca a dirsi di esistere. Se fosse lasciato solo probabilmente si arenerebbe spaesato, privo di orientamento. Éder assorbe l’urto e restituisce al difensore la spinta. Koscielny cade, Éder procede insicuro verso la porta, avanzando con passo balbettante, e nell’oblio di soluzioni convenzionali improvvisa un gesto che non appartiene al suo repertorio. Esteticamente è evidente quanto sia torbida quella rincorsa, goffa e tentennante. La traiettoria impressa al pallone però sembra disegnata con dovizia e precisione quasi artistica, risultando l’esatto opposto della sua preparazione: tonante, risoluta, incontestabile nella sua autorevolezza. Al minuto 109 Éder riesce dove Eusebio e CR7 avevano fallito, suggellando un percorso tanto beffardo quanto mistico, e regala al Portogallo il primo trionfo in un Europeo. Ironia della sorte, la vittoria passa dai piedi di un uomo qualunque, che per una notte si è ritrovato casualmente cucito addosso il costume di supereroe.
La profezia
Che fosse l’uomo del destino qualcuno l’aveva intuito prima di tutti gli altri. Al momento della sostituzione, Cristiano Ronaldo si è avvicinato ad Éder pronunciandogli con fermezza poche semplici parole: “Vedrai che sarai tu a segnare il gol della vittoria”. Il vaticinio di CR7, come ammesso dallo stesso Éder, ha gettato l’uomo cresciuto a Coimbra in una bolla emotiva impermeabile alle ostilità. Il momento del cambio è una finestra spazio-temporale che corrode le interiora, in cui il germe dell’insicurezza si insinua viscidamente generando una paralisi cognitiva. Il monito del capitano costretto ad abbandonare la nave durante la tempesta più ostile, ha risuonato come un conforto prezioso, capace di placare ogni moto ondoso interiore. Éder ha semplicemente eseguito una consegna, risultando quasi incosciente nell’irriverenza di un gesto tecnico che nessuno prima di allora gli aveva visto produrre. A fine partita i ringraziamenti di circostanza sono stati rivolti, in maniera tutt’altro che convenzionale, a tale Susana Torres, la sua mental coach. Il lavoro di crescita più importante per Éder si è svolto lontano dal campo, all’interno di una mente irrequieta. Perché la storia di un re per caso non può e non deve essere banale.
La carriera calcistica di Éder prima dell’appuntamento con la gloria è frastagliata e tentennante, proprio come la rincorsa che ha preceduto quella parabola disegnata dal destino. Ad undici anni abbandona la Guinea-Bissau e arriva a Coimbra, un piccolo centro nella regione Breira-Litoral rinomato per le eccellenze in campo intellettuale, dove ha luogo la sua iniziazione al calcio. A Coimbra vive e cresce in un collegio, lontano dalle torbide vicende familiari: pochi mesi dopo l’arrivo in Europa il padre viene accusato dell’omicidio della matrigna e viene condannato a sedici anni di reclusione. Il calcio diventa inevitabilmente una fonte di distrazione preziosa, la strada più semplice per gettarsi alle spalle sofferenze difficili da gestire per un adolescente. Nel 2006 fa il suo esordio nel professionismo con la maglia dell’Oliveira do Hospital siglando 18 reti in 23 incontri, per poi approdare nella Secunda Liga tra le fila del Tourizense dove in due anni colleziona soltanto 11 marcature in 42 gare ufficiali, la maggior parte delle quali realizzate nel finale di stagione. L’imponente prestanza fisica, a dispetto di un bagaglio tecnico rivedibile, convince l’Academica, squadra della massima divisione, ad investire su un giovane talento ancora da plasmare. Il rendimento nella selezione di Coimbra è però tutt’altro che irresistibile (12 gol in 82 presenze), e il calcio portoghese, tutto estro e fantasia, inizia definitivamente ad apparire incompatibile con le lunghe ed impacciate leve di un ragazzo nato poco a nord dell’Equatore. Nel 2012 la chiamata del Braga è di fatto l’ultimo treno per dimostrare al mondo di poter dire la sua con il pallone tra i piedi. Dopo una prima stagione sorprendente Éder ricade in una malinconica spirale involutiva, anche a causa di una serie di infortuni che lo terranno fuori per buona parte del campionato. Il C.T. Paulo Bento formalizza però la sua convocazione per il mondiale del 2014, affascinato dall’idea di inserire nel proprio organico un attaccante atipico rispetto alla carente tradizione dei centravanti lusitani. Sembra quasi che attorno ad Éder si leghi una maledizione. Sono in tanti a voler investire su di lui, fiduciosi di poter finalmente godere dell’esplosione di un talento sopito. Éder prontamente però tradisce le attese, alimentando un ciclo illogico fatto di delusioni e nuove speranze, senza mai cedere all’ipotesi di un fallimento definitivo. Nel 2015 viene acquistato dallo Swansea City per sette milioni di euro, arriva dunque in Premier League, un calcio teoricamente più consono alle sue caratteristiche, dove fare a botte diventa quasi una necessità più che una virtù. Tredici presenze e zero gol sono un biglietto da visita impietoso, Francesco Guidolin (approdato nel gennaio 2016 agli Swans) dispone la sua cessione rimpiazzandolo con Alberto Paloschi nel tentativo di smuovere la formazione gallese dalla zona rossa della classifica. Chiude la stagione in prestito al LOSC Lille, dove sibila la nota più dolce di una carriera fin qui altalenante: le presenze sono sempre tredici, ma questa volta i gol sono sei. Fernando Santos lo inserisce senza esitazione nella lista dei convocati per Euro 2016.
In nazionale, vivere all’ombra di Cristiano Ronaldo non deve essere sicuramente un’esperienza piacevole. Soggiogato dall’imponenza di CR7, le occasioni per poter sfondare con la maglia della propria selezione sono davvero ridotte. Nel settembre del 2012 fa il suo esordio contro l’Azerbaigian in un match di qualificazione valido per il mondiale brasiliano, subentrando ad Helder Postiga a tre minuti dalla fine. Due anni più tardi, il 16 giugno del 2015, sigla la sua prima marcatura con la maglia lusitana, in un incontro amichevole contro gli azzurri di Antonio Conte. Ad Euro 2016, prima della magica notte del Saint-Denis, aveva giocato appena tredici minuti equamente distribuiti contro Austria e Islanda. Contro la Francia gli è bastata mezz’ora per oscurare una carriera costellata da apparizioni incolori.
O feitiço, parte seconda
L’esternazione della felicità può propagarsi attraverso infiniti canali, generalmente non inquadrabili in una prospettiva razionale. L’esplosione di gioia che irrompe dopo un gol, specie in una finale di un Europeo, difficilmente segue le orme di un gesto programmato. Quando Éder ha estratto in mondovisione quel guanto bianco dal parastinchi, sono rimasto perplesso e al tempo stesso affascinato. Non tanto per il gesto in sé (decisamente ambiguo e anticonvenzionale), ma per la lucidità con cui ha frenato la libidine del momento per concedere spazio al gesto stesso. Quasi fosse una necessità, un rituale da dover portare a termine. Éder non è nuovo a questo tipo di esultanza: già con la maglia del Lille, squadra in cui milita attualmente, ha sfoderato il guanto bianco dal parastinchi, redarguendo il mondo con l’indice teso, oscillante dall’alto verso il basso, quasi a volerlo sfidare. Come ha dichiarato in una delle decine di interviste rilasciate nel post-europeo, quel guanto bianco gli ricorda tutte le sofferenze subite nel corso della sua vita, divenendo il ricettacolo esterno in cui ha travasato l’angoscia di un’esistenza complessa, fatta più di ombre che di luci, sia dentro che fuori dal campo. Questa delocalizzazione del dolore gli permette di raggiungere un equilibrio emotivo non indifferente. Quel guanto bianco gli infonde la forza per affrontare nuove sfide, ma funge anche da monito per la vita che l’ha ferito. Ed è naturale che quell’oggetto si carichi di una valenza mistica, spirituale. Quel guanto bianco è il suo portafortuna. Quel guanto bianco, in un certo senso, è il suo feitiço.
Probabilmente il grande merito di Éder è quello di aver beffato la geografia. Per una notte il Portogallo si è mosso dall’estremo occidente al centro dell’Europa, salendo sul gradino più alto. E per una notte Éder si è ritrovato nel punto più vicino all’alba anziché al tramonto.