Ogni esistenza ha le sue sliding doors, anche se, in un certo senso, alcune pesano più di altre. Quel momento in cui spazio e tempo si dilatano perdendosi nelle infinite crepe della possibilità, per Cristiano Lucarelli si è materializzato nell’estate del 2003. Restare al Torino, in Serie A, con un ingaggio di prim’ordine o abbracciare i colori della sua città-natale, Livorno, appena risalita in Cadetteria: la risposta di Cristiano è anche il titolo della sua biografia,“Tenetevi il miliardo”, una scelta di cuore che forse non rifarebbe sotto altre vesti.
E’ proprio a partire da questo episodio che abbiamo iniziato una lunga chiacchierata sulla sua vita: dall’amore tormentato con la sua Livorno, 111 gol in 192 presenze con i “labronici”, alla nuova carriera da allenatore, in Sicilia, nella burrascosa rivoluzione del Messina Calcio. Dal rapporto con la politica di sinistra fino alla critica verso un calcio in cui fatica a riconoscersi.
“Tenetevi il miliardo” è il manifesto di un calcio romantico destinato inevitabilmente all’estinzione. Può essere una scelta ancora attuale?
“No, è un fatto che oggi difficilmente potrebbe ricapitare. Non solo per colpa dei calciatori, ma soprattutto a causa di un sistema che tiene conto delle plusvalenze e sempre meno della passione. E’ un po’ tutto il contesto ad essere cambiato“.
L’identificazione dell’uomo con la sua terra, nel tuo caso con la città di Livorno, è una sorta di contraddizione rispetto alle tendenze del mondo moderno: un invito a star fermi quando tutt’intorno si muove alla velocità della luce. Cosa c’è alla base di questo legame?
“Si è parlato molto di una decisione (quella di restare a Livorno) che ha tante sfumature: si è detto soprattutto di un “Lucarelli comunista”, un “Lucarelli rivoluzionario”. La verità è che la mia è stata una scelta semplice. Ho cercato di realizzare il sogno che inseguivo da bambino, giocare per la squadra della mia città alla quale ero legato anche e soprattutto per dei trascorsi da tifoso. Però mi rendo conto che nel calcio essere normali è già un’anormalità“.
L’impressione, però, è che senza una coscienza politica (intesa, nel senso più ampio del termine, come comprensione delle aspirazioni, degli umori e dei problemi della propria città), tutto questo non fosse possibile. Quanto c’era del tuo orientamento politico dietro ogni tiro, ogni passaggio, ogni scatto?
“Ce n’era, ma sicuramente molto meno di quanto si sia voluto far passare. Non ho mai rinnegato le mie idee e mai lo farò, però sono stato spesso strumentalizzato. Non sono mai stato un attivista politico, non ho mai avuto tessere del partito, tranne una volta quando giocavo a Torino che mi è stata regalata, eppure venivo dipinto ovunque come il “rivoluzionario di sinistra”. Il non essermi mai schierato fino in fondo è stato paradossalmente un problema dopo: quando ho avuto bisogno da un punto di vista lavorativo, nella mia città la “sinistra” mi ha voltato le spalle“.
Politica e calcio costituiscono un binomio naturale che rischia però di diventare pericoloso. Oggi è possibile fare politica dal basso o il calcio è sempre più destinato a subire le dinamiche di potere imposte dall’esterno?
“Prima si parlava di presidenti-tifosi, di ambizioni umane anche al di là dei risultati. Oggi invece si parla di manager, di plusvalenze e di commercialisti. Quindi di utili, televisioni e meno di stadi e famiglie allo stadio. E’ cambiato un po’ tutto il sistema. Poi purtroppo alcune politiche non aiutano. In Inghilterra, per esempio, si fa di tutto affinché ci sia una concorrenza: anche il Leicester può vincere il campionato, e la finale di Coppa di Lega può essere giocata tra due squadre di terza divisione. Contrariamente a quanto avviene in Italia dove anche il format della Coppa nazionale è pensato perché in finale arrivino sempre le stesse squadre. I dividendi qui sono distribuiti per favorire sempre le solite piazze. E’ un circolo vizioso: la prevedibilità del risultato finale contribuisce alla diminuzione dei tifosi e alla svalutazione del prodotto calcio da vendere un domani alle televisioni“.
Quanto è cambiato il gioco e tutto il contesto di riferimento da quando hai iniziato fino ad oggi?
“E’ cambiato tanto. Quando giocavo io la Serie A era il campionato più bello del mondo, adesso, come ho detto prima, le politiche di gestione dell’ultimo decennio hanno fatto sì che tanti giocatori si affacciassero ad altri campionati. Le grandi squadre hanno guardato più al proprio orto che a quello condominiale e questo ha depotenziato l’interesse verso il nostro calcio. Al giorno d’oggi, quando una squadra domina 6 campionati di fila non è soltanto merito della squadra che vince. Certo, è sempre difficile vincere, e qui va riconosciuto il grande lavoro della Juventus, ma va anche detto che probabilmente c’è qualcosa da rivedere nelle altre componenti. Il campionato italiano è diventato noioso, scontato e con pochi spunti“.
Oltre a Livorno, hai vissuto altre realtà calde come Torino, Bergamo, Lecce e Napoli. Sembra quasi che sentissi di volta in volta il bisogno di legarti sentimentalmente oltre che professionalmente ad ogni progetto.
“Io non sono un ipocrita che pensa che il calcio sia uno sport come tutti gli altri. L’aggregazione che si crea nel calcio, il tifo che c’è nel calcio, la partecipazione che nutre il calcio, i sacrifici che si fanno nel calcio, credo non esistano in nessun altro sport. Per questo ho sempre cercato piazze che lo vivessero in maniera viscerale, che facessero della squadra un ideale di vita. Bergamo, Torino, Napoli, Livorno, Cosenza, Lecce, e ora Messina, sono tutte piazze in cui il calcio è un riscatto sociale per le persone. In questo senso, sì. Ti confesso che mi sarebbe piaciuto giocare anche nel Genoa. E’ un altro di quei posti dove si respira un’atmosfera autentica“.
Poi ci sono le esperienze fuori dall’Italia, a Valencia e allo Shakhtar Donetsk. Due realtà distanti, lontane non solo fisicamente, ma anche per cultura e tradizioni. Cosa ti ha portato fin lì?
“Per quanto riguarda il Valencia, al di là del fatto che la società fosse in grande ascesa e che ci fosse un allenatore italiano del calibro di Claudio Ranieri, mi incuriosiva l’essere uno dei primi italiani che andava a giocare all’estero. Volevo scoprire come si vivesse lì il calcio rispetto all’Italia. Per quanto riguarda il capitolo Ucraina si è trattata di una scelta di vita inusuale. Ero nella parte finale della mia carriera e sapevo che non avrei più potuto garantire determinati standard ai quali la città di Livorno era abituata. E’ stata la prima volta in cui, vista l’età, una parte di me, non quella dominante, ha pensato anche alle prospettive di guadagno. Penso sia stata anche l’unica“.
Quel sentimento di immedesimazione con la curva lo hai portato per tanti anni sulla schiena con il numero 99. Un numero ricco di significato, no?
“Sono legato al 99 per due motivi: il 1999 è l’anno di nascita di mio figlio, ma anche il numero di riferimento delle Brigate Autonome Livornesi, nate lo stesso anno. E’ un numero che ha un valore speciale“.
E qui tocchiamo una questione spinosa. Il rapporto tra ultras e calcio è spesso macchiato da episodi inquietanti, per ultimo il caso dei manichini dei giocatori giallorossi appesi su ponte Annibaldi: qual è il confine della tolleranza? Quando lo sfottò finisce per lasciare il posto all’intimidazione?
“Inutile negarlo, il mondo ultras mi affascina perché provengo da quella dimensione. Però non ti nascondo che ci sono delle cose che fanno male, come quello che è successo a Roma o, ancor peggio, a Taranto. Quel gesto (l’aggressione dello scorso marzo da parte di dodici ultras ad alcuni giocatori e allo staff tecnico della squadra, ndr) ha fatto perdere la serenenità che serviva per affrontare il finale di campionato, condannando la squadra alla retrocessione. La contestazione, nei modi, è stata sbagliata, e ha fatto capire in generale che le contestazioni ormai non servono più. Non ho mai visto una squadra contestata riuscire a tirarsi fuori dal momento negativo, anzi. Basta vedere quello che è successo da noi quest’anno a Messina: i tifosi hanno capito il dramma della squadra, si sono schierati al nostro fianco e insieme abbiamo raggiunto la salvezza. Credo sia facile fare il tifoso quando si vince, bisogna dimostrare di essere tifosi soprattutto nei momenti di difficoltà“.
La distanza e le differenze, oltre che le tante primavere, rendono necessario un addio. Ci sei passato anche tu. Cosa sta succedendo tra la Roma e Totti? Perché una splendida storia d’amore si sta trasformando in una relazione complessa, fatta di insofferenze e incomprensioni?
“Forse Francesco non è riuscito a capire quale fosse il momento migliore per farsi da parte. Io ho avuto la fortuna di rendermi conto quand’era opportuno dire basta. Penso anche a Del Piero, lì c’è stata una gestione diversa sia da parte di Alex che della Juventus. A Roma c’è stata un po’ di ipocrisia da parte di tutti, nessuno escluso. Di Totti, in prima persona, ma soprattutto di tutte le persone intorno a lui“.
Per il momento a Livorno c’è il tuo grande amico Igor Protti, che abbiamo avuto il piacere di intervistare qualche giorno fa. Destini incrociati: lui nella tua Livorno, tu a Messina dove Igor ha dato tanto, e poi un’ultima esperienza insieme nel 2015 al Tuttocuoio in Lega Pro, direttore sportivo uno, allenatore l’altro. Vi sentite spesso?
“Si ci siamo sentiti anche stamane (ieri, ndr), ci sentiamo molto spesso“.
53 gol insieme nel 2004, anno della promozione in Serie A del Livorno dopo 55 anni dall’ultima volta: stesso modo di vivere il calcio, un’intesa che andava oltre il pallone. Anche lì, il segreto del successo era il sentire sotto pelle quei colori, il sentirsi parte di qualcosa di più grande?
“Solitamente tra attaccanti c’è sempre competizione, un po’ di egoismi e di gelosie. Con Igor non c’è mai stato niente di tutto questo perché entrambi amavamo la maglia e mettevamo la maglia a capo di tutto: questo ha fatto sì che ci fossero la massima collaborazione e la massima intesa nell’interesse del Livorno. Dentro e fuori dal campo“.
Quei valori te li sei portati dietro anche in panchina. La salvezza col Messina è un esempio di sacrificio e abnegazione: un cambio di proprietà a febbraio, una squadra allo sbando, vittima della profonda crisi societaria sotto la gestione Stracuzzi, e poi sette punti in tre partite quando tutto sembrava perduto. Molti avrebbero mollato, tu hai retto il timone contro ogni avversità.
“Sì, perché nel frattempo si era instaurato un rapporto speciale con la città e con i tifosi. Dopo tanti anni bui non volevo essere l’ennesima delusione per Messina. Anche se le condizioni per andare avanti erano difficili, non sono rimasto a guardare e ho voluto offrire il mio contributo. Diciamo che mi sono legato a questa avventura e ho fatto di tutto per ormeggiare la nave in porto, come poi è successo“.
L’hai detto tu stesso: “Decidere se essere Schettino oppure Edward Smith per me non è difficile …”. Un tweet che ha suonato la carica prima della delicata sfida contro la Juve Stabia dello scorso gennaio. Qual è stata la chiave del cambio di rotta?
“Il cambio di rotta è coinciso con l’arrivo del nuovo Presidente Franco Proto. E’ stato quello a darci la spinta finale. C’è da dire anche che, sebbene fossimo tutti molto stanchi e sfiduciati, la squadra stava viaggiando dignitosamente anche prima. I ragazzi hanno sposato la causa, hanno capito il messaggio insito nella sfida: riuscire a lavorare bene nonostante le difficoltà. Un approccio che serve sempre nella vita“.
Un gesto forte, d’altri tempi, è stato anche quello di disertare gli allenamenti dopo la mancata erogazione degli stipendi e di marciare verso i Cantieri Navali Dea, di proprietà di Natale Stracuzzi. Lì è passato tanto della salvezza maturata sul campo?
“Sì, quel gesto ha unito la squadra ancora di più. Lì ho capito che ci saremmo salvati a prescindere da tutti i problemi. La cosa più bella è che via via che marciavamo, la gente ci vedeva per strada e si univa a noi. La squadra e la città si sono ribellate ad un destino che sembrava ormai segnato, diventando una cosa sola. Il Messina da lì a qualche ora avrebbe cessato di esistere. C’è stata una grande risposta da parte di tutti“.
C’è un episodio, portato alla ribalta pochi giorni dopo la marcia dal giornalista del Fatto Quotidiano Diego Pretini, che ti vedrebbe protagonista della chiusura del “Corriere del Livorno”, di cui sei stato editore fino al 2010. Secondo Pretini non avresti pagato per mesi gli stipendi dei tuoi impiegati, disponendo poi la chiusura del giornale senza curarti degli incontri richiesti dai sindacati. Un episodio che distorce l’immagine del “Compagno Lucarelli”. Come sono andate le cose?
“Il giornalista in questione ha usato le pagine di un giornale importante per divulgare delle enormi falsità, e mi meraviglio che il Fatto Quotidiano abbia pubblicato un articolo senza neanche sincerarsi di come fossero andate realmente le cose. Più che un articolo di cronaca mi è parsa una vendetta personale. C’è stato un momento in cui ho dato ragione a Berlusconi, quando diceva che in Italia si infangano le persone con troppa facilità. E detto da me ce ne vuole. Internet viene usato con leggerezza per raccontare episodi che putroppo, la maggior parte delle volte, come in quel caso lì, si scoprono poi non essere veri. Neanche Gesù Cristo è riuscito a mettere tutti d’accordo, figurarsi Cristiano Lucarelli che arriva dalle case popolari. Però in effetti oggi è drammaticamente facile infamare. Io spero sempre che la verità venga a galla. Ma la verità, e non le bugie a fini personali“.
Non solo Livorno, ma anche Valencia, Lecce e Napoli tra le altre. E adesso Messina da allenatore. Il mare ha spesso fatto da cornice ai momenti più significativi della tua vita.
“Io sono un lupo di mare, nato e cresciuto sulla scogliera. Per me rappresenta un luogo di pensiero, di riflessione, di rilassamento. Valencia, Livorno, Lecce, Napoli, adesso Messina: forse c’è un po’ di casualità che però non dispiace perché per uno che è nato sul mare averlo a due passi è sempre un grande vantaggio“.
Il mare è sinonimo di viaggio. Si parte, ma spesso si sente il bisogno di tornare a casa. Quando ti vedremo sulla panchina del Livorno?
“Non dipende da me. Io mi auguro di poter fare da allenatore quello che non sono riuscito a fare fino in fondo da calciatore, vale a dire arrivare ai grandi palcoscenici. Non posso negare che Livorno rappresenta gran parte della mia vità. Però fare l’allenatore non è come fare il giocatore: se il giocatore ha un contratto, si allena bene e fa vita sana, alla fine le prestazioni parlano per lui. E anche se non arrivano i risultati collettivi, bene o male, riesce sempre a lasciare un segnale da un punto di vista individuale. L’allenatore purtroppo, per un costume tutto italiano, è sempre la parte più debole, anche quando vince: se hai una rosa di 25 giocatori, 11 sono contenti, mentre per gli altri 14 sei un nemico. Poi i procuratori chiamano, i direttori sportivi si affannano, i presidenti si lamentano… Insomma, l’allenatore non dipende completamente da se stesso. Nei luoghi in cui hai dei legami forti puoi lavorarci solo se ci sono delle condizioni di massima sicurezza, altrimenti rischi di diventare una vittima del sistema. Di cuore mi piacerebbe, di testa preferirei di no“.
I TESTI E I CONTENUTI PRESENTI SU TABSERNEWS.IT POSSONO ESSERE RIPORTATI SU ALTRI SITI SOLO PREVIA CITAZIONE DELLA FONTE. CI RISERVIAMO IL DIRITTO DI RICORRERE ALLE VIE RITENUTE PIU’ OPPORTUNE IN CASO DI VIOLAZIONE.