Quanto era bello il calcio di una volta. Quello delle partite tutte assieme alle 14:30 la domenica. Quello delle coppe al mercoledì. La Coppa Campioni, quella per intenderci che oggi si chiama Champions League e che si gioca il martedì ed il mercoledì e che vede la partecipazione non solo di chi vince il campionato ma anche di chi riesce a piazzarsi tra i primi venti (discorso che ultimamente non vale per l’Italia). E poi la Coppa UEFA e la Coppa delle Coppe, quelle che oggi in ragione del business sono diventate l’Europa League, noiosissimo torneo al giovedì che spesso e volentieri, specialmente nella fase iniziale, assume i connotati del torneo aziendale di calcetto.
IL FASCINO DELLA COPPA DELLE COPPE E LE SORPRESE SEMPRE DIETRO L’ANGOLO
Un certo fascino particolare l’ha sempre avuta ai miei occhi la Coppa delle Coppe. Un po’ perché tra i miei primi ricordi calcistici internazionali c’è la cavalcata del Parma della stagione 1992-1993 conclusasi con la vittoria sull’Anversa nella finalissima di Wembley. Un po’ (vabbè facciamo soprattutto) perché è stato il primo trofeo internazionale vinto dalla Lazio. Per altro nell’ultima finale che si è disputata della competizione prima della sua abolizione. Affermazione che ha fatto da preambolo alla vittoria contro il Manchester United degli invincibili nella finale di Montecarlo del 1999 della Supercoppa Europea che allora veniva disputata tra la squadra vincitrice della Champions League e quella per l’appunto che aveva sollevato la Coppa delle Coppe. Cose insomma che a chi come me pende per la sponda biancoceleste del Tevere permettono ancora oggi, ad oltre sedici anni di distanza, di campare calcisticamente parlando di rendita. Ma andiamo con ordine. La Coppa delle Coppe è stata per 36 anni (dal 1963 al 1999) la competizione UEFA dedicata alle squadre vincitrici delle rispettive coppe nazionali. Una competizione dunque per certi versi d’élite alla quale prendeva parte una sola squadra per ogni campionato. Motivo per cui in 39 edizioni si sono contati ben 32 vincitori senza che nessuno sia stato in grado di mettere il trofeo in bacheca per due anni consecutivi. La formula del torneo è sempre rimasta fedele a se stessa: 4 turni ad eliminazione diretta da giocare andata e ritorno e finalissima in gara secca in campo neutro (tranne che nella prima edizione). Il trofeo era considerato meno nobile della Coppa Campioni ma più prestigioso della Coppa UEFA. Se infatti la squadra che aveva vinto la coppa nazionale vinceva anche il campionato, questa partecipava alla Coppa Campioni e l’altra finalista, seppur sconfitta, alla Coppa delle Coppe. Se viceversa la squadra che vinceva la coppa nazionale aveva conquistato in campionato un piazzamento utile per la Coppa UEFA, a quest’ultima partecipava allora la prima squadra rimasta fuori dai piazzamenti europei. A rendere ancor più interessante la competizione contribuiva anche il fatto che la tendenza a snobbare la coppa nazionale è evidentemente vecchia quanto il calcio. Per cui non erano rare le sorprese e dunque non era raro trovare tra le partecipanti squadre di città che era difficile individuare anche sull’atlante. Un po’ come accadde nella stagione 1987-1988 all’Atalanta.
LA CAVALCATA DELLA DEA ED IL MIRACOLO DI LISBONA
In quell’anno la squadra di Emiliano Mondonico si ritrovò a disputare la Coppa delle Coppe avendo perso la primavera precedente la finalissima di Coppa Italia contro il Napoli di Maradona. Quello insomma che aveva appena vinto il primo storico scudetto dei partenopei e dunque pensava alla Coppa Campioni. La cosa più bizzarra di tutta la situazione però era che nel frattempo gli orobici erano finiti in Serie B. Nel campionato precedente infatti alla cavalcata trionfale dei nerazzurri nella coppa nazionale aveva fatto da contraltare una più mesta corsa verso gli inferi. Bel grattacapo per il Mondo chiamato a riportare in fretta la Dea nella massima serie cercando al contempo di evitare figuracce in Europa al calcio italiano. Questa era infatti la maggior remora degli addetti ai lavori che, magari anche ragionevolmente, non avrebbero scommesso una lira (all’epoca l’euro non c’era) sul futuro continentale di una squadra che per valori tecnici sembrava destinata a faticare anche per tornare prontamente in Serie A. E molti probabilmente sorrisero con quel ghigno tipico di chi si atteggia a grande conoscitore del mondo quando la Dea all’esordio nelle coppe europee si fece sorprendere per 2-1 in casa dei nordirlandesi del Merthyr Tydfil. Uno di quei posti che manda in tilt anche Google Heart quando cerchi di identificarlo. Al ritorno a Bergamo però i nerazzurri addrizzarono le cose e imponendosi 2-0 si meritarono il passaggio agli ottavi dove ad attenderli c’era l’Ofi Creta. In Grecia vinsero di misura i padroni di casa. Ma in un Comunale stracolmo e rumorosissimo a spuntarla fu ancora una volta l’Atalanta. Ancora una volta per 2-0. Il cammino dell’undici di Mondonico incominciò a suscitare interesse anche al di fuori della città di Bergamo. Ma il ghigno di qualcuno a dirla tutta ancora non si era spento. Anche perché l’avversario dei quarti non era mica una squadretta di chissà quale posto sperduto dell’Europa. Ad attendere l’Atalanta c’era infatti lo Sporting di Lisbona. Gara che per altro si incastrava tra alcuni match che rappresentavano uno snodo cruciale per un campionato, quello cadetto, dove la squadra comunque era sempre riuscita a mantenersi saldamente nel gruppo di testa. Mondonico, uno che di calcio ne ha sempre capito, fu infatti molto bravo a mantenere alta la concentrazione e a dosare le energie per fronteggiare nel migliore dei modi il doppio impegno dei suoi. La gara di andata contro i portoghesi questa volta si giocò in casa. E come era ormai diventata consuetudini in coppa, l’Atalanta vinse 2-0. Eroi della serata furono Nicolini e Garlini. Gli eroi del match di ritorno furono invece Ottorino Piotti ed Aldo Cantarutti. Il primo, di professione portiere, parò praticamente tutto riuscendo a far si che i biancoverdi nonostante un assedio portato sin dal primo minuto riuscissero a segnare una sola rete. Il secondo, centravanti capellone, ebbe il merito di rendere ancor più inutile la marcatura lusitana involandosi in solitudine a metà ripresa nella metà campo avversaria, mettendo a sedere il portiere avversario e realizzando la rete che portò in tranquillità gli orobici in semifinale. L’accesso alla finalissima di Strasburgo passava per il Belgio. Per Mechelen per l’esattezza.
IL BRUTTO RAPPORTO DI EMILIANO MONDONICO CON I LEGNI COMINCIA DAL MALINES
Quella del Mechelen, per tutti il Malines, era una storia molto diversa rispetto a quella dell’Atalanta. La squadra giallorossa con calzoncini neri sebbene reduce da una decade (anche qualcosa in più) di risultati deludenti, aveva pur sempre un passato glorioso potendo vantare in bacheca tre titoli nazionali. C’era poi da dire che dall’anno precedente il club sembrava essere tornato in auge. In campionato il Malines si era piazzato secondo alle spalle dell’Anderlecht ed era poi riuscito a vincere la coppa nazionale battendo 1-0 lo Standard Liegi in finale. Certo che l’impianto di gioco non sembrava terrorizzante. I belgi erano soliti starsene arroccati in difesa a protezione di un certo Michael Preud’homme per poi trovare il momento adatto per colpire in contropiede. Così avevano eliminato ai quarti la Dinamo Minsk dopo aver fatto fuori i rumeni della Dinamo Bucarest e gli scozzesi del St Mirren rispettivamente ai sedicesimi ed agli ottavi. E così del resto avrebbero vinto la coppa a Strasburgo contro l’Ajax. Perché il sogno dell’Atalanta svanisce ad un passo dalla finale. L’andata si gioca in Belgio ed è qui che l’Atalanta fa la frittata. Il gol decisamente evitabile in avvio di gara e poi, dopo il pari firmato Stromberg, un clamoroso errore di Nicolini a tu per tu con Preud’homme rendono ancora più difficile da digerire il raddoppio dei padroni di casa. Ma c’era da giocare ancora il match di ritorno. Per altro a Bergamo, dove l’Atalanta sembrava imbattibile.
L’attesa era febbrile in città. Le file per accaparrarsi i biglietti iniziarono il giorno prima della messa in vendita con la gente che dormiva nei sacchi a pelo sul marciapiede. La sera del 20 aprile la città sembrava spettrale. Chi non era allo stadio stava davanti al televisore sintonizzato su RAI. Ed insieme a Bergamo anche buona parte dello stivale era incollata allo schermo. Perché, come spesso accade, quando le cose cominciano ad andare bene e c’è sentore di impresa nell’aria, tutti quanti non vedono l’ora di poter dire Io c’ero. E però, come altrettanto spesso accade in queste circostanze, succede che quando hai gli occhi di tutti addosso alla fine inciampi. Il Malines mette subito le cose in chiaro. L’obiettivo dei belgi è difendersi. Con le buone o con le cattive. Più con le cattive a dire il vero visto che nei primi venti minuti non basta una mano per tenere il conto degli interventi fischiati ai danni di Garlini. Che però non impediscono all’atalantino di mandare in estasi il Comunale quando allo scadere del primo tempo realizza il rigore che sembra consegnare all’Atalanta il pass per la finale di Salisburgo. Il Malines sembra infatti incapace di reagire e gli orobici hanno l’occasione del colpo del ko con Fortunato che incorna di testa alla perfezione un pallone che però si stampa sul palo. Il brutto rapporto di Emiliano Mondonico con i legni nelle partite di coppa iniziò proprio quella sera. Ma questa è un’altra storia. Poco dopo il Malines trova il pari in mischia con l’olandese Rutjes, stopper di professione. Quando ormai l’Atalanta è alle corde arriva anche il raddoppio ospite. A segnare è un altro difensore, Emmers, che colpisce in contropiede. Al fischio finale un Comunale in lacrime tributa comunque il giusto omaggio ai propri beniamini che a fine stagione, non senza fatica, riporteranno comunque la Dea in Serie A. Un gruppo di quasi eroi che pur fallendo l’impresa ha comunque regalato all’Atalanta una delle stagioni più esaltanti della sua storia.