Sgombriamo subito il campo dagli equivoci. La Juventus è senza ombra di dubbio la squadra più forte del calcio italiano. Chi si era convinto del contrario dopo la sconfitta rimediata domenica scorsa in casa della Roma è stato immediatamente smentito dalla prestazione dei bianconeri nella finalissima di Coppa Italia disputatasi ieri sera. Una prova di forza, specialmente nel primo tempo, che non lascia spazio a troppe recriminazioni ad una Lazio che non deve sentirsi ridimensionata dalla sfida dell’Olimpico ma semplicemente prendere atto che quanto di straordinario fatto in questa stagione lascia comunque un gap considerevole da colmare. Ma procediamo con ordine.
La Juventus è la squadra più forte dicevamo. Lo dicono i risultati straordinari degli ultimi sei anni; lo dice l’attitudine alla vittoria; lo dice il predominio psicologico che i bianconeri hanno sulle concorrenti in ambito nazionale ma anche in quello internazionale dove due finali di Champions League in tre anni non possono essere certo solo frutto del caso. La consapevolezza dei propri mezzi che accompagna giocatori e staff della Juventus è evidente nel lusso concessosi di buttare via il primo di tre match point scudetto, quello con la Roma per l’appunto, per non fallire l’appuntamento, questo improrogabile, di Coppa Italia dove la squadra di Allegri ha scritto una pagina di storia diventando la prima compagine italiana a sollevare il trofeo per tre volte consecutive e soprattutto ha messo il primo tassello per un triplete che mai come quest’anno sembra a portata di mano. Lo scudetto arriverà con molta probabilità domenica prossima contro il Crotone. Poi la Juventus avrà tutto il tempo per preparare l’atto finale di Champions League in programma a Cardiff il prossimo 3 giugno. Allegri è un grande condottiero; uno stratega. Ha la freddezza che serve a gestire con lucidità il percorso che porta al raggiungimento dei grandi traguardi. L’intelligenza di sacrificare la pur importante sfida con la Roma pur di non fallire quella con la Lazio che assegnava il primo trofeo della stagione. Poi, indubbiamente, le vittorie della Juventus passano anche per una squadra granitica dove tutti, dai titolarissimi alle riserve, sanno cosa fare e come comportarsi. Merito, e chiudiamo il cerchio, di una società che ha tratto indubbio giovamento dallo scandalo calciopoli. Dal purgatorio della Serie B ed il contestuale ripulisti è rinata una società che oggi, come decenni or sono, è specchio dell’eccellenza della famiglia che rappresenta. La Juventus è il team più forte del calcio italiano anche perché è l’unico che ha la dimensione della grande azienda in un panorama popolato da squadre di calcio (la stragrande maggioranza), progetti marketing oriented (la Roma a stelle strisce) e tante buone intenzioni ancora lungi dal divenire solide realtà (leggasi Inter e Milan). Insomma, diciamolo onestamente, se non fosse che il calcio è una questione di fede incrollabile tramandata di generazione in generazione, della Juventus oggi ci si potrebbe anche innamorare pur tifando per altri club. Senza dubbio però, a prescindere dai colori del cuore, oggi quella bianconera è una squadra che ispira maggiore simpatia rispetto alla Juve dei tempi della c.d. triade.
Poi c’è la Lazio. Ecco, torniamo su un concetto ribadito più volte: la Juventus è la squadra più forte. Perché allora partire allo sbaraglio ingolosendo una squadra di per se già molto affamata? Il risultato è stato incassare (inevitabilmente) due gol in 24’ agevolati per altro da due orrori difensivi. Per quanto Inzaghi possa recriminare sul pallo di Keita e dunque sul possibile rigore per la deviazione di mano di Barzagli, è difficile onestamente immaginare che il plot della partita sarebbe potuto essere diverso. Il vero episodio che avrebbe forse potuto dare uno scossone è stato semmai il salvataggio sulla linea di Neto. Ma restiamo sempre nel campo delle ipotesi e con il risultato già sul 2-0. Quel che invece è certo è che Strakosha è stato fatto oggetto del tiro al bersaglio bianconero nella prima frazione di gioco e che invece la Lazio difficilmente ha impensierito la difesa bianconera, che pur qualche falla ha mostrato, nonostante un secondo tempo arrembante. Ma l’atteggiamento della ripresa è figlio del risultato della prima frazione di gioco venutosi a determinare dopo appena 24’ minuti. Simone Inzaghi, in questa sua prima vera stagione da condottiero della Lazio, ha raggiunto risultati che, considerate le premesse stagionali, sono straordinari. Il numero di punti in classifica, l’Europa League conquistata con tre turni di anticipo, il record di gol segnati, la finale di Coppa Italia (e molto probabilmente quella di Supercoppa) e la rivitalizzazione (con conseguente rivalutazione) di molti giocatori che sembravano cause perse o sul punto di perdersi. Se vogliamo trovare la ciliegina sulla torta della gestione Inzaghi questa probabilmente risiede, sfumata la Coppa Italia, nella gestione dei derby di Coppa e di quello di ritorno in campionato con la Roma. Gestione da intendersi in senso lato ovvero tattica e mentale dove l’abilità della Lazio è stata quella di aspettare l’avversario per stanarlo e colpirlo poi con l’arma migliore di questa squadra: la velocità. Nella finale con la Juventus è mancato l’approccio. La voglia di strafare ha preso il sopravvento mandando troppo presto a rotoli una partita che poi, tatticamente, ha assunto nuova dignità solo con il passaggio alla difesa a quattro e l’innesto di Felipe Anderson. La Lazio ha fallito forse l’appuntamento con il principe. Ma la squadra di Lotito, quattro finali negli ultimi tre anni, di sicuro non è più Cenerentola.
La Lazio è ora in un limbo in balia di un amletico dubbio: diventare finalmente grande o tornare a vivere all’ombra delle sorellastre Juventus, Roma, Napoli e chissà, magari anche Inter e Milan. La strada parrebbe tuttavia segnata. Questa squadra ha fatto un campionato straordinario totalizzando un punteggio che in altri tempi sarebbe valso la Champions; ha ritrovato l’Europa; ha riabbracciato il suo pubblico. Ha trovato un condottiero che è giovane e ha tante buone idee che spesso e volentieri ha dimostrato anche di saper mettere in pratica. Ha un patrimonio, da intendersi come rosa, non indifferente. Da puntellare, se i vari Keita, De Vrij e Biglia lo permetteranno; da sacrificare, in caso contrario, incassando però tanta moneta sonante da poter reinvestire sul mercato. C’è un uomo solo che può sciogliere il dubbio. Che faccia la sua parte.