Nella serata di mercoledì, appena una settimana fa, si è chiuso un altro capitolo della carriera di Antonio Cassano. Forse, non l’abbiamo mai capito fino in fondo.
La parola “verità” in greco classico è resa con il termine “A-letheia”, letteralmente “non-nascondimento”. Un paradosso intrigante se consideriamo che la resa linguistica della somma trasparenza consiste nella negazione del suo contrario. Un po’ come Antonio, che non si è mai nascosto e non ha mai nascosto nulla, attirando su se stesso la luce e ripudiando ogni mistificazione: sotto qualsiasi lente, dalla grazia estetica sul campo ai peccati più abominevoli di una moralità incandescente, fuori.
E’ un paradosso anche che la parabola di Antonio Cassano si sia inclinata così rapidamente e senza fare alcun rumore. Pochi altri all’infuori di Fantantonio sono stati capaci di dirsi e di contraddirsi, di fare e di disfare, con irriverente incongruenza, costantemente esposti al chiacchiericcio mediatico, ma pur sempre devoti a quella sfumatura di Verità che è la corrispondenza tra pensiero e azione. Ora, dopo aver risolto consensualmente il contratto con la Sampdoria, Antonio termina il suo esilio in una zona d’ombra, consapevole che la libertà è un’altra cosa. Solo, con un assordante silenzio intorno.
Aggancio di tacco, slalom da étoile e tocco d’artista, queste le premesse da cui è iniziato tutto. Eleganza sublime, sostituita fuori dal campo da modi ben più rudi. Come quando ha cacciato via uno ad uno i tremila ‘conoscenti’ che hanno bussato alla sua porta dopo il gol contro l’Inter che gli ha cambiato la vita. D’altronde Antonio non ha mai tollerato i doppiogiochisti, gli sciacalli, i viscidi. Li ha sempre riconosciuti a naso ed espunti, fin da subito. Per converso è riuscito a far breccia nel cuore dei grandi campioni, restituendo tanto in cambio di una tenera richiesta di comprensione: Roberto Carlos, Beckham, Ronaldo, Zidane, tutti amici veri che ne serbano un gran ricordo.
Antonio è quello che possedeva otto auto di lusso, viaggiando con due cellulari tra le mani e il volante sguarnito, con atteggiamento canzonatorio perfino verso la morte. Antonio è anche quello che negli ultimi sei mesi si è allenato con la Primavera della Doria, l’amico un po’ troppo cresciuto per sgambare ancora con i ragazzini, con il girovita un po’ più largo e la voglia di ispirare il cambiamento, senza però ergersi a modello. Antonio è quello che ha trascorso notti di fuoco con più di seicento ragazze diverse – e a suo dire si è anche tenuto basso nelle stime – ma anche quello che ha incontrato l’amore vero di una donna. Dalle notti di biringuite acuta, alcool e baldoria a più non posso, ai pomeriggi a bordo vasca a tifare per la sua Carolina, come un marito esemplare, tutto casa e chiesa, c’è un solco inspiegabile. Antonio ha spezzato bandierine, distrutto spogliatoi, acceso focolai di ribellione, ma a suo modo ha sempre seguito un ferreo paradigma morale: quello della lealtà prima di tutto verso se stesso e poi nei confronti di quella infinitesimale parte di mondo che ha imparato ad accettarlo così com’è.
Il grano, ha ribadito più volte, sarebbe il fine ultimo da perseguire. Il valore supremo, anche più della salute, della famiglia, degli affetti più cari. O quanto meno condizione essenziale per essere felici, per poter godere appieno di tutto il resto. Lui lo sa, ne ha subito il fascino, travolto da un improvviso e smodato accesso ai soldi, quelli veri, transitando dalla povertà di Bari Vecchia al lusso ridondante dei salotti di Madrid. Forse è stato proprio lo scarto abissale a contaminarne il giudizio, perché se poi si osserva su un vetrino ogni frammento della sua carriera, in fondo non sembra crederci nemmeno lui. Infelice con i Galacticos è ripartito dalla Sampdoria, lontano dai trofei e dalla gloria, abbracciando il calcio nella sua dimensione più pura: quell’essere felici e rendere felici, giocare per se stesso e per la sua gente, che ora ha amato, ora odiato, ma sempre in maniera viscerale, senza compromessi o mediazione.
Un altro aspetto interessante riguarda la lingua. Antonio ha sempre preservato la dizione del suo dialetto: una concatenazione di consonanti stridenti, vocali appena accennate, confluenti in una sintassi decisamente carente. Però ha anche contribuito a riformare il lessico di ‘quelli che parlano bene’, con la sua personalissima devozione alla boutade, all’irriverenza, agli eccessi. Nel dizionario della lingua italiana Treccani, alla voce “cassanata”, si legge: “Gesto, comportamento, trovata, tipici del calciatore Antonio Cassano”. E’ anche questo un paradosso bell’e buono. Lo stereotipo del calciatore ignorante, bersaglio più di chiunque altro delle invettive populiste e simbolo di una cultura al ribasso, è stato in grado di cristallizzarsi nell’immaginario collettivo contaminandone addirittura le strutture linguistiche.
E di cassanate si potrebbe riempire un elenco telefonico: si va dall’incursione in auto al campo di allenamento del Bari, il giorno dopo la vittoria sull’Inter, ai palleggi in Piazza del Ferrarese a torso nudo. Millecinquecento palleggi la soglia da superare, Fantantonio accettava e vinceva la scommessa: “Apri e chiudi gli occhi e ce la fai”- diceva, sguardo da sbruffone e sorriso a trentadue denti. O come quando arrivò con tre ore di ritardo all’appuntamento in via Aurelia per siglare l’accordo con la Roma: il contratto della vita e il Presidente Sensi che lo abbraccia come un figlio. E poi i sorrisi e gli alterchi con Capello, da Roma a Madrid, uniti nel destino ma divisi nell’approccio esistenziale: glaciale e meticoloso l’uno, passionale e strafottente l’altro. Altro che bastone e carota, lui il bastone avrebbe dovuto spaccarglielo in testa.
Pellicciotto da tamarro, capello unticcio e orecchini accecanti: “Un mafioso che palleggiava al Bernabeu”. Così si è definito Antonio ripensando all’esperienza in terra iberica. Gordito e dannato, ma amato dalle leggende, Raul su tutti. Anche qui, due modi antitetici di interpretare il calcio: il professionista esemplare opposto al ragazzino prodigio, che di applicarsi però non ne vuole proprio sapere. Tanti i maestri che hanno provato a raddrizzarlo: Gentile, Del Neri, Völler, Prandelli, Spalletti. Alcuni tollerati, altri proprio indigesti, nessuno però come Eugenio Fascetti, un padre ancor prima che un allenatore. Lui sì che sapeva come prendere il Cassano ribelle. Mostrargli rispetto la chiave per ottenerlo a sua volta. Fin dai tempi di Bari, appena sedicenne.
Le magliette lanciate al vento, le corna all’arbitro, il cerchio di anime giallorosse vicino alla bandierina dopo il 4-0 rifilato alla Juventus, il nemico di sempre. I duetti d’autore con Totti, suo idolo d’infanzia: stessa lingua calcistica, l’uno inflessibile leggenda, l’altro malconcio anti-eroe. Poi la metamorfosi con l’arrivo dei due figli, uno che di nome fa Lionel, proprio come Messi, l’altro Christopher, a testimonianza che l’eccentricità non è soltanto cosa di campo. Antonio ha capito che dare, in certi casi, è anche meglio che ricevere. Ha applicato il nuovo mantra a Genova dove per la prima volta si è preso prima cura lui degli altri che viceversa: l’assistenza come nuovo valore supremo, i boati di Marassi dopo un gol di Pazzini, Antonio che scopre l’empatia negli occhi di chi lo ringrazia.
Nulla di definitivo perché Cassano è uno spirito libero, non può essere addomesticato fino in fondo. E da lì la rottura con Garrone, le tre stagioni a Milano, sponda Milan prima e Inter poi, tanto per non farsi mancare nulla. Un’altra tappa nel calcio di periferia, questa volta a Parma, perché Antonio, seduto nei salotti del calcio, proprio non ci sta stare. Un cuore che rischiava di scoppiare e quel “Problemi loro se son froci, problemi loro”, gridato in nazionale: un’uscita a vuoto, pronunciata nel posto sbagliato al momento sbagliato. In fin dei conti, l’ennesima occasione per mettersi il mondo contro. E poi il ritorno a Genova da figliol prodigo, come se la distanza avesse rinsaldato il rapporto, e i dissidi con il Presidente Ferrero: lui e Antonio, stessa esuberanza tout court, fin troppo simili per andare d’accordo.
Concluso ogni rapporto con la Sampdoria, il destino di Cassano appare più incerto che mai. “Cina? Mi hanno chiamato, ma il calcio è un’altra cosa”. Eppure vederlo sbraitare in barese stretto dall’altra parte del mondo, con migliaia di occhi a mandorla che lo fissano intontiti, sarebbe un divertissement mica male. Il grano da solo, forse, non basta più per tracciare nuove rotte. Con il volto scavato dall’acne, a trentaquattro anni suonati, Antonio deve fare i conti non il passato. Lui, a differenza di Peter Pan, è cresciuto fin troppo in fretta.