Incredibile ma vero: alla vigilia di Liverpool-Porto a Jürgen Klopp non hanno trovato niente di meglio da chiedere se non un parere sull’Islanda. Merito di Magnús Már Einarsson, giornalista islandese che puntando su un esito già scritto (la qualificazione dei Reds ai quarti di finale di Champions League) ha pensato bene di sfruttare l’occasione per strappare un titolo da spendere in patria chiedendo al tecnico tedesco un parere sul movimento calcistico islandese.
“Quante persone vivono in Islanda? 300 mila? Da non crederci. Sono come le radici del calcio e sono le radici di tutta la vita. Ovviamente non hai bisogno di molte persone, ma solo delle persone giuste per fare grandi cose: è un Paese che ha fatto cose incredibili non solo nel calcio, ma anche nella pallamano e in altri sport”.
Klopp ha mostrato di gradire la domanda continuando nel suo elogio al sistema islandese: “Si potrebbe pensare che il Paese sia pieno di atleti, ma ci sono anche medici, insegnanti e tutto il resto. Non capisco come ci siano solo 330-340mila residenti lì. Devono essere medici, insegnanti e calciatori professionisti allo stesso tempo”.
C’è poco da fare. Il coinvolgimento mostrato da Jürgen Klopp dimostra che la squadra di Heimir Hallgrímsson, a distanza di due anni dall’exploit di Euro 2016, continua ad essere una meravigliosa favola che appassiona gli addetti ai lavori. “Se la Germania non potrà vincere la Coppa del Mondo e l’Inghilterra nemmeno – ha continuato Klopp – allora spero che vinca l’Islanda. Sarebbe il più grande successo della storia dello sport. Mi sento a mio agio con tutte le persone nel tuo meraviglioso Paese. Complimenti per essere islandesi”.
Si è concluso così un siparietto che, nella sua immediatezza, ha contribuito a riportare sotto la luce dei riflettori l’icelandic fairytale. Perché il geyser sound si prepara a riecheggiare anche in Russia.
Eravamo rimasti con l’onda travolgente delle mani battute a tempo da capitan Aron Einar Gunnarsson, tatuatissimo culturista prestato al pallone (con tanto di moglie palestrata al fianco, per fare pendant) durante la spedizione in Francia per Euro 2016. Abbiamo imparato ad apprezzare la naturale evoluzione del solco tracciato dallo svedese Lars Lagerbäck, perché Heimir Hallgrímsson ne ha egregiamente preso il suo posto una volta dismesso il camice da dentista. Ed ora ci apprestiamo a seguire con simpatia e curiosità le gesta dell’Islanda contro le grandi non solo d’Europa, ma del mondo intero.
Era il 9 ottobre 2017 quando gli Strákarnir okkar (“i nostri ragazzi”) hanno ufficialmente strappato i pass per Russia 2018 da primi del girone. E’ stata la tipica serata di convivialità che sin dai tempi di Beowulf contraddistingue l’epica nordica: contro il Kosovo a Reykjavík, in uno Laugardalsvöllur Stadion strapieno, è arrivata una vittoria che ha certificato il continuo processo di crescita del movimento calcistico islandese. Tre punti arrivati dopo la passeggiata di tre giorni prima in Turchia dove il 6 ottobre l’Islanda si era regalata uno 0-3 esterno a Eskişehir siglato da Guðmundsson, Birkir Bjarnason e Árnason; tre gol che hanno ammutolito 30mila turchi estromettendo, un po’ a sorpresa, la nazionale di Havutçu dal Mondiale.
In realtà quello dell’Islanda è stato un cammino di qualificazione abbastanza folle. Un girone vinto sebbene vi fossero rivali più accreditate come Croazia ed Ucraina oltre alla già citata Turchia. Un girone che ha visto l’Islanda avere spesso la meglio all’ultimo respiro. La squadra di Hallgrímsson ad esempio perdeva in casa al 90′ contro la modesta Finlandia ma di colpo è riuscita a rimontare (91′ Finnbogason, 96′ Ragnar Sigurdsson) portando a casa tre punti fondamentali per evitare gli spareggi; ha avuto la meglio sui croati solo grazie al gol vittoria del’ex Cesena Hörður Björgvin Magnússon arrivato allo scoccare del 90′; ha domato l’insidiosa Ucraina ma allo stesso tempo è curiosamente uscita sconfitta da Tampere (i derby si sa sono sempre un po’ complicati a tutte le latitudini).
La chiave che ha portato questa amabile truppa di boscaioli semi-professionisti a giocarsi un Mondiale che l’Italia vedrà comodamente dal proprio salotto è stata l’umiltà. L’Islanda si è presentata ad ogni sfida consapevole dei suoi punti forza ma soprattutto dei suoi limiti sopperendo alle carenze tecniche (e non che quella islandese sia una squadra messa poi così male) con la corsa e l’agonismo. Un modus operandi che ha regalato parecchie soddisfazioni se è vero che nel 2012 la Nazionale islandese occupava la 131ima posizione del ranking FIFA per poi balzare nel 2016, dopo l’incredibile europeo di Francia, alla 27ima posizione. Oggi l’Islanda occupa la 17ima posizione davanti a Svezia, Olanda, Uruguay e solo due posizioni dietro all’Inghilterra battuta a Euro 2016. Ma la crescita del movimento islandese non deve sorprendere perché è frutto di un processo di programmazione e visione a medio/lungo termine che molto avrebbe da insegnare agli altri movimenti calcistici (soprattutto europei).
“L’Islanda ha dimostrato di saper trasformare la propria piccolezza in forza”, dichiarava incredulo il Presidente della Repubblica, Guðni Jóhannesson, dopo l’impresa in terra transalpina dei suoi. E la piccolezza dell’Islanda è in effetti un fattore da analizzare attentamente.
L’Islanda conta circa trecentomila abitanti; quasi quanti quelli del Molise. La vittoria sulla Turchia ha estromesso dal Mondiale 2018 una nazione di 80 milioni di cuori palpitanti, 35 mila dei quali stipati nello stadio in occasione della disfatta della squadra della mezza luna. L’Islanda andrà in Russia, con buona pace degli Stati Uniti e dei 323 milioni di yankees che anno dopo anno si stanno sempre più affezionando al soccer.
In occasione di Euro 2016 ci fu un meme che riscosse particolare successo: in pratica consisteva in una sorta di depennamento degli abitanti dell’isola togliendo le donne, le persone troppo giovani o troppo vecchie, i malati, e così via fino a ottenere soli 24 uomini, i 23 convocati per l’Europeo più uno dei tue tecnici (Hallgrímsson naturalmente, visto che Lagerbäck è svedese). Scherzi a parte, il 10% dell’Islanda era migrato in Francia per seguire i ragazzi nella loro favola. Davanti alle tv, incollati agli schermi, c’erano tutti gli altri.
Come far splendere un movimento calcistico pressoché inesistente? Della pianificazione abbiamo già parlato qui. La spiegazione invece di come poi i frutti siano stati raccolti sul campo è stata per lungo tempo sotto ai nostri occhi; ma probabilmente eravamo così meravigliati da non prestarci troppa attenzione. Un gioco semplice, fondato sul 4-4-2 più scolastico possibile, è stato il dettame tattico prediletto. Così come gran parte del calcio nordico, la priorità è stata blindare la difesa perché fare gol è un problema e dunque innanzitutto è meglio non prenderne. L’estetica è altra roba, chiaro: i lunghi rinvii di Hannes Þór Halldórsson (che prima di fare il portiere lavora come regista) a cercare la testa di Kolbeinn Sigþórsson sono materiale interessante. Le proverbiali gittate da rimessa laterale che capitan Aron Gunnarsson spedisce nell’area di rigore avversaria idem. Col suo gioco fisico e maschio, l’Islanda ha creato un suo univoco marchio di fabbrica. L’Inghilterra è crollata così: rimessa a mo’ di schema Stoke, torre del possente Kári Árnason e il conseguente tocco sotto di un difensore. Si tratta dell’altro Sigurðsson, oltre a Gylfi, ossia il possente centrale Ragnar. Così è nato uno storico successo per il calcio islandese.
La Federcalcio islandese, KSÍ, stima che il 7% del paese giochi a calcio. Dopo le gesta in Francia, oltre a un curioso boom di nascite, si è espansa pure la consapevolezza che quel pallone possa donare soddisfazioni. Si parla sempre di villaggi, perché sono l’unità minima di un paese strappato alla lava, in sostanza. Ma non importa di che villaggio si tratti, perché per un islandese quella è casa. “I ragazzi ricevono lo stesso insegnamento a prescindere dal luogo in cui vivono, avere buoni allenatori e buone infrastrutture è un’ambizione di ogni villaggio e ogni villaggio è orgoglioso di produrre buoni calciatori”, raccontò Hallgrímsson a proposito dell’educazione calcistica che era appena stata instillata in un Paese che aveva appena scoperto il magico potere del calcio. E anche se magari non escano fuori tutti Guðjohnsen, poco importa.
A fronte di una Pepsideild complessivamente valutata 20,65 milioni da Transfermarkt, la nazionale sorprende e da sola vale la metà di tutti gli islandesi che militano in patria: 10,55 milioni. Di questa non sono compresi i 30 milioni tondi affibbiati al più talentuoso calciatore di questa golden generation, quel Gylfi Sigurdsson per il quale l’Everton in estate ha speso poco meno di 50 milioni. Oggi la nazionale è circoscritta al campionato, perché in vista del Mondiale l’operato del nuovo ct va verso la volontà di testare talenti autoctoni: spazio dunque a una fortissima delegazione proveniente dalla Svezia (i difensori Hauksson e Fjóluson, gli esterni Smárason e Traustason, gli attaccanti Bjarnason, Haraldsson e Karlsson). Per loro ci sarà la possibilità di sognare, al fianco dei grandi che già hanno ipotecato i loro biglietti, un posto tra i 23. Ma tutta un’intera nazione sarà lì a urlare per i suoi beniamini, sperando di applaudire al tempo del geyser sound pure in Russia, dove il clima sarà freddo e assomiglierà a quello di casa.