Cinque giorni e poi sarà Mondiale. Il calcio torna a casa o almeno così si dice in Brasile dove giovedì notte (in Italia) la manifestazione prenderà il via. Tutti sono pronti. Tutti sono contenti. O forse no.
Ritardi, manifestazioni, violenza, militarizzazione. Sono solo alcune delle parole che in questi giorni di imminente vigilia scandiscono il count down verso il momento in cui tutto il mondo avrà gli occhi puntati sul Paese carioca. E sarà pronto a giudicare. Sono parole che stridono con le scene di giubilo che avevano accompagnato nel 2007 la proclamazione a Paese ospitante dei Mondiali 2014. Il calcio che torna a casa, il fantasma del Maracanazo da scacciare una volta per tutte. Dobbiamo vincere e sicuramente vinceremo. L’occasione giusta per mostrarci al mondo per quello che siamo: un Paese in crescita che mira ad imporsi come una delle principali economie mondiali. Il Brasile di ottobre 2007 eletto dalla Fifa a Ginevra come sede del Mondiale 2014 era un Brasile molto differente da quello odierno. Era il Brasile del Presidente Lula, carismatico e trascinatore del popolo. Era il Brasile del boom economico che tutte le potenze mondiali vedevano di buon occhio. Era il Paese che per la prima volta si apriva seriamente ai programmi socio-assistenziali, allo sviluppo ed all’integrazione. Era il Brasile dove i ricchi continuavano ad essere ricchi e qualche povero ascendeva alla classe media. Era il Paese dove la parola protesta da qualche tempo a quella parte non si sapeva più cosa fosse. Del resto, quando le cose girano per il verso giusto, è difficile che qualcuno si lamenti. Almeno su questo, tutto il mondo è paese.
Oggi lo scenario è sensibilmente diverso. Al Presidente Lula è succeduta Dilma che proprio a suo agio nel ruolo presidenziale non è e che ultimamente non gode certo del favore popolare. La flessione economica ha toccato anche i Paesi in via di sviluppo sicché anche il Brasile non è certo rimasto esente. I ricchi sono sempre ricchi mentre la classe media arranca e si arrabatta per non tornare ad essere etichettata come povera, e di tanto in tanto si mescola in piazza con la gente delle favelas per protestare e far sentire la propria voce.
Quella voce che grida che gli 8,3 miliardi spesi dallo Stato dal 2010 ad oggi in stadi ed infrastrutture pubbliche per i Mondiali non sono tollerabili a fronte dei 269 circa che il governo ha destinato nello stesso periodo alla salute ed all’educazione.
Che le proporzioni siano in realtà significative, che il PIL del Paese regga tali investimenti, che buona parte delle infrastrutture, che ai tempi dovevano essere finanziate esclusivamente da fondi privati anche se poi così non è stato, non saranno terminate nei tempi previsti (oltre agli stadi che verranno consegnati in alcuni casi sul filo di lana, non saranno pronti aeroporti, autostrade, stazioni ferroviarie, arterie ad alto scorrimento, etc.) è tutto vero. Come è vero del resto che non tutti gli interventi pubblici non abbiano apportato miglioramento al popolo carioca. Certo, in alcuni casi probabilmente non sono investimenti sufficienti o correttamente veicolati e funzionali. Il livello di analfabetismo od ancora le pessime condizioni degli impianti fognari delle città che mettono in pericolo la salute delle classi meno abbienti sono dati di fatto. La questione sicurezza, che con la militarizzazione delle città e delle favelas in particolare, sembrava aver trovato una soluzione, è riesplosa fragorosamente trovando quasi giustificazione nei moti di protesta che già avevano accompagnato lo scorso anno la Confederations Cup. Quando la gente protesta generalmente il lato marcio della società trova terreno fertile per proliferare ed il minimo pretesto è l’occasione giusta affinché la situazione degeneri.
Dopo i cortei e le violenze della Confederations, la situazione sembrava essere tornata sotto controllo. Il governo sembrava aver trovato la formula magica per arginare le proteste che comunque, con l’avvicinarsi del mondiale, sembravano sopite. Ad aprile, però, la polizia “pacificatrice” (secondo definizione statale) è diventata assassina (definizione faveliana) scatenando a Rio de Janeiro le ire del popolo delle favelas che si è riversato per le strade scatenando la guerriglia per vendicare l’uccisione di un ballerino da parte della polizia. Episodio isolato però. O quasi.
I brasiliani, nonostante tutto, sono gente allegra. Amano il calcio più di ogni cosa. Più di ogni manovra di governo o spesa pazza che comunque, nella peggiore delle ipotesi, si potrà sempre far pagare al Presidente Dilma che il prossimo ottobre cerca la riconferma per guidare il Paese fino al 2019. Man mano che il 12 giugno si avvicina e con esso l’inizio del Mondiale, l’entusiasmo per l’evento sembra destinato a prendere il sopravvento lasciando solo come fastidioso brusio di sottofondo l’eco delle proteste.
Quando il pallone rotola non ce n’è più per nessuno. Non c’è tempo di pensare a strutture tipo quella di Manaus, nel cuore dell’Amazzonia, costata ben 219 milioni di euro e destinata ad ospitare quattro partite dei gironi mondiali e poi le gare di serie D del club di casa. Non c’è tempo di riflettere sul fatto che al Brasile il mondiale è costato più di quelli di Germania e Sud Africa messi insieme. Non c’è tempo. Perché il calcio torna a casa dopo 64 anni. Perché è da allora che da queste parti si aspetta di riscattare il Maracanazo. Non c’è tempo di pensare ad altro perché bisogna vincere. Ed il Brasile vincerà.