Tutto ebbe inizio tra 2000 e 2001, quando Peter Fossen e Harry van Raaij – rispettivamente ad e presidente del PSV Eindhoven – lanciarono la proposta di un’Atlantic League che concentrasse un grumo di calcio lasciato fuori dalla Coppa dei Campioni. Così alcune squadre rappresentanti di Olanda, Belgio, Portogallo, Scozia e alcune scandinave avrebbero partecipato a una competizione tra di loro. L’idea fu poi accantonata, ripresa nel 2002 escludendo la Scandinavia, nuovamente ripresa nell’autunno 2003 col nome di North Atlantic League Cup, ancora abbandonata per qualche anno e tornata in auge nel 2008 prima e nel 2016 poi. Questo per dire che una “Lega Atlantica” non sarebbe una novità, ma anzi un deterrente alla noia della Champions League che tende a dimenticare i campionati minori. A inizio 2016 vi furono contatti tra Olanda (Ajax, Psv, Feyenoord), Belgio (Anderlecht, Club Brugge), Scozia (Celtic, Rangers), Svezia (Malmö FF), Danimarca (FC Copenhagen), Norvegia (Rosenborg BK) e forse pure la Finlandia (HJK). Non si fece nulla, ma la proposta separatista suscitò un clamore deciso e un’ondata di interesse mediatico testimoniata pure dall’inchiesta dell’influente The Guardian.
«Il cambio di formato della Champions League sta uccidendo il calcio come lo conosciamo, il calcio europeo si sta spostando verso gli sport americani dove non si lotta per retrocedere o promuoversi ma conta solo il vincitore. Dov’è la gioia in questo? Siamo onesti, oggi l’Allsvenskan è un campionato terribilmente debole» facevano sapere, paragonandola all’esperimento fallito della Royal League.
Nell’ottobre 2016 l’ad dell’FC Copenhagen, Anders Horsholt – dimessosi nel gennaio 2018 e già gestore della Parken Sports & Entertainment – rivelò la proposta. Spiegò alla stampa di aver parlato pure col Rosenborg BK, deluso per non esser riuscito ad avanzare nella fase preliminare di Champions League malgrado un Eliteserien dominata in maniera incontrastata, e di aver in testa un baluardo di contrasto all’egemonia dell’UEFA: «Se non agiamo ora, vedremo i club più grandi diventare più grandi e più forti, mentre per quelli come noi sarà sempre più difficile. Dobbiamo quindi valutare quali sono le alternative alle opportunità tradizionali, è presto per parlare di modelli ma la discussione di leghe attraverso i confini europei è un tema a cui guardiamo e partecipiamo attivamente». Parole di denuncia, volte alla ricerca di opportunità in un mercato dominato dai leader e con solo poche briciole lasciate ai competer, follower e nicher. «Comprendiamo che i club più grandi agiscono come loro – ha continuato Horsholt – ma significa anche che dobbiamo guardare alle alleanze con squadre di paesi nella stessa situazione. Questa non è una situazione che abbiamo creato, ma dobbiamo affrontarla perché non possiamo vivere con la contabilità alternativa. Dobbiamo continuare a svilupparci come club ed essere interessanti per gli sponsor e i giocatori migliori. Pertanto è essenziale esserci a livello europeo. Uscire dai campionati nazionali potrebbe esserne il risultato».
Inizialmente l’Atlantic League fu discussa come una fuga dai rispettivi campionati, oggi invece si configura come una seria alternativa alla Champions League visto che l’Uefa ha stabilito quattro posti automatici dalla stagione 2018/19 per la top four (Spagna, Inghilterra, Germania, Italia) rendendo ancor più difficile la qualificazione di squadre minori ma leader nei rispettivi tornei nazionali, che avranno soli 16 posti da contendersi. Mossa caldeggiata pure dall’Italia, non dall’Olanda dove Ajax e Feyenoord faticano a tener il passo delle top leagues e finiscono – la maggior parte delle volte – col vendere i loro talenti all’estero. Si viene dunque a creare un circolo vizioso: la minor competitività allontana televisioni, tv, fondi.
Su tutti i soldi, perché dietro a questo meccanismo si nasconde l’allettante prospettiva di migliorare gli utili aumentando le entrate per le società partecipanti. Poi la volontà di andar contro i quattro big europei gioca un ruolo decisivo e l’ex mediano danese Claus Thomsen è intervenuto a tal proposito alla BBC: «Tutta questa struttura piramidale nel calcio è unica nello sport professionistico e dovremmo stare molto attenti a preservare questo valore. Se l’UEFA non cambia, un torneo separatista è un’opzione seria. La lega danese dovrebbe lasciar spazio a un’altra lega organizzata da qualcun altro, sarebbe fondamentalmente una cattiva idea ma penso sia assolutamente necessaria se l’Uefa non si lascia alle spalle il principio del merito sportivo come valore fondamentale del calcio europeo».
Per non parlare poi di quando un FC Copenhagen incontra sulla sua strada giganti del calibro di Barcellona, Bayern Monaco, Juventus o PSG. Fastidiosa la loro egemonia europea, una volta eliminate dalle competizioni europee le squadre di campionati minori devono fare i conti con leghe da loro dominate. La forbice prevede una sostanziale monotonia, un mare immenso in cui il pesce più grande si ciba di quello più piccolo. E visto che l’Uefa deve necessariamente aumentare i ricavi per coprire i costi d’organizzazione dlle competizioni, il modo migliore è metter di fronte le migliori squadre auna contro l’altra. Rischiare di mettere a repentaglio i vari campionati (Allsvenskan, Tippeligaen, Superligaen) per un’Atlantic League destinata a fallire è da valutare. E non accadrà fino al 2021, quando sarà completato il prossimo ciclo di competizioni UEFA per club.
Nel 2016, il Copenhagen aveva vinto la Superligaen per undici volte ed era stabilmente in corsa per la dodicesima. Restando in Danimarca il Brøndby vantava dieci successi nazionali nel suo palmarès, l’ultimo dei quali risaliva al 2004/05 e più in generale la storia stessa del club è radicata nel passato: quarti di finale in Coppa dei Campioni 1986-87, poi la partecipazione ai gironi di Champions League 1997-98, le semifinali di Coppa Uefa nel 1991 e un sostanziale addio dalle scene internazionali dal 2004. In Svezia il Malmö FF era 20 volte campione d’Allsvenskan e finalista perdente di Coppa dei Campioni 1978-79, l’Östers IF si laureò quattro volte campione ma dal 1981 ha visto un crollo inesorabile che oggi lo vede in terza serie. In Norvegia infine il Vålerenga cinque volte davanti a tutti in Tippeligaen sta vivendo anni opachi dal 2005. Per loro, e molte altre nobili decadute assenti da tanto tempo sulla scena europea, l’Atlantic League può essere certamente un’occasione di rilancio, ma non tutti i tifosi la vedono in questo modo.
Giocare in Champions League è una grande cosa per i club scandinavi, che vengono ampiamente trattati nella stampa scandinava e non solo nei quotidiani nazionali. Per chi riesce a qualificarsi alla fase a gironi, escludendo la maggior attrazione di tifosi allo stadio, i vantaggi economici possono assicurare un bilancio a posto per diversi anni e la presenza di calciatori autoctoni di qualità. Questo, almeno, traspare dalle interviste del The Guardian. «Da tifoso del Malmö sono ragionevolmente fiducioso che la mia squadra sarebbe inclusa in qualsiasi campionato atlantico, tuttavia l’effetto sulla nazionale di Allsvenskan sarebbe una vera preoccupazione. A mio parere sembra che dobbiamo confrontare l’indebolimento delle leghe svedesi, danesi e olandesi con una competizione “europea” in cui solo squadre da tre o quattro paesi possono realisticamente competere. La Champions League ha raggiunto il picco tra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni ’00, quando c’era un bel mix tra le più grandi squadre da Italia, Spagna e Inghilterra, pur consentendo una rappresentanza di squadre come Dinamo Kiev, Porto, PSV, Lione, Olympiakos e Galatasaray. Dopo la vittoria del Porto nel 2004, Lione e PSV sono stati gli unici club al di fuori delle quattro leghe a minacciare di raggiungere una finale. La situazione attuale è così distorta verso il Bayern Monaco e il duopolio spagnolo».