Galeotta fu la sentenza Bosman. Anni di lotte, anni di conquiste e alla fine un’inversione di ruoli tanto impronosticabile quanto spropositata. Nello spinoso vortice di rapporti tra società e giocatori, se c’è un verdetto che il recente calciomercato ci ha lasciato in dote, è che sono quest’ultimi a farla da padrone. Tra patemi d’animo e affanni psicologici che avvinghiano l’esofago, è tutta una questione di volontà. La volontà di chi calcia ovviamente, le altre parti possono soltanto stare a guardare.
Donnarumma, Schick, Keita, Niang. I più recenti, quelli che hanno dato vita agli intrecci più vibranti delle telenovelas da calciomercato, sono soltanto gli ultimi di una lunga serie. Tutti giovani, con un brillante futuro davanti, eppure così navigati nella gestione dei propri affari. Comandano loro, spesso guidati dai veri lupi del calciomercato, quei procuratori che tra parcelle milionarie e un’inflazione crescente, guardano ad ogni rilancio in sede d’asta con gli occhi di chi ha trovato l’amore.
Le società tentennano, provano a mitigare le tensioni, ma quando un calciatore decide che la sua avventura in un porto è finita, non resta che cercare il modo migliore per dirsi addio. Pochi veti, intransigenza che rasenta lo zero. Tanta tolleranza, quella sì, per evitare che un proprio tesserato finisca nella zona d’ombra temuta più dell’afa ad agosto: il limbo dei parametri zero, degli addii con l’amaro in bocca, senza monetizzare un centesimo. Che nel calcio di oggi, le cui cifre sfiorano l’insensatezza, vuol dire darsi zappa sui piedi, manico compreso.
L’ha intuito con largo anticipo il Milan nel più intricato nodo d’inizio estate. Donnarumma via, Donnarumma in tribuna. E alla fine Donnarumma che resta con buona pace di chi già pregustava altrove i guantoni più promettenti del Belpaese. Ovviamente alle cifre e alle condizioni imposte da quella vecchia volpe che è Mino Raiola, uno di quelli che dalle diatribe raccoglie tutto il grasso che cola. Accuse di mobbing rispedite al mittente, quietate da un contratto da capogiro, che la testa a Gigio l’ha fatta girare per davvero, tanto da abbandonare i banchi della maturità per le dorate spiagge di Ibiza.
Non era così ai tempi del sopracitato Jean-Marc Bosman, uno che la storia la scrisse eccome. Non sul campo, ma sulle pergamene della giurisprudenza sportiva. Con un contratto scaduto da diversi mesi, nel 1995 Bosman chiese al RFC Liegi di essere ceduto al Dunkerque. La contropartita offerta dalla squadra francese fu ritenuta insufficiente, il trasferimento fu così rifiutato e Bosman venne messo ai margini della rosa. L’intuizione geniale di Bosman fu quella di rivolgersi alla Corte di Giustizia Europea che, sulla base dell’articolo 39 del Trattato di Roma, dichiarò l’insostenibilità di una prassi largamente diffusa nel calcio: da lì in avanti ogni giocatore, alla decorrenza del regolare contratto, avrebbe potuto trasferirsi gratuitamente in un’altra società purché facente parte di uno stato UE.
A ruota venne anche la liberalizzazione del calciomercato come lo conosciamo oggi: poche frontiere e stranieri ammessi a circolare liberamente da un campionato comunitario all’altro. E pensare che Bosman, tanto era grande l’ostracismo mutuato nei suoi confronti, finì addirittura per giocare per una piccola squadra nell’isola di Reunion, nell’Oceano Indiano. Poi una parabola di alcool e depressione, fino al carcere per violenza domestica. Una caduta fragorosa quanto l’ascesa delle paghe dei suoi colleghi: condite da una lunga sequela di zeri, macchiate però dal sacrificio di un uomo sacrificabile.
Stipendi più esosi sì, ma anche lì voce in capitolo degna dell’ultimo arrivato per Roberto Baggio, protagonista di uno dei trasferimenti più chiacchierati e al tempo stesso ombrosi del calcio italiano. Il passaggio dalla Fiorentina alla Juventus non è soltanto pane per la letteratura sportiva, ma anche l’esempio più lampante di un modo di fare in cui è difficile riconoscersi oggi. E’ cosa nota che quando il Divin Codino lasciò la Fiesole nella dannata estate del 1990, quella del notti magiche, l’umore tendesse più al grigio che al bianco e nero. Un trasferimento imposto, un’offerta irrinunciabile. Lacrime difficili da trattenere quando qualcuno decide al posto tuo. Un addio da nodo in gola, affogato nel silenzio di chi della dignità ha fatto uno stile di vita.
E poi ci sono i Keita, i Donnarumma e i Niang di turno. Quelli che presentano certificati medici da stress psicologico, millantano infortuni, s’ingegnano per liberarsi da catene invisibili. Sanno di avere il coltello dalla parte del manico. Furbi loro, chi non farebbe altrimenti? Una rivoluzione nella rivoluzione all’interno di un mercato fatto di regole che esistono per essere aggirate. I petroldollari qatarioti stritolano il Fair Play Finanziario con la stessa crudeltà con cui i giocatori tagliano fuori le società da ogni processo decisionale.
E’ successo a Niang, legato contrattualmente al Milan, ma desideroso di cercare fortuna altrove. Quell’altrove però è stato lui a sceglierlo: rifiutata la maxi offerta dello Spartak Mosca, Niang ha abbracciato il Torino nell’ennesimo nodo di mercato scioltosi soltanto in prossimità del traguardo. In mezzo il solito Raiola e un certificato medico che gli ha permesso di saltare gli allenamenti nella sfibrante attesa. Stress da calciomercato e come combatterlo.
Stessa storia per Kalinic e Barnardeschi qualche settimana fa, anche loro abilitati a congedarsi dal campo, certificato medico alla mano, per curare le ferite di un calciomercato che logora la psiche. E poi c’è la saga Keita. Una matassa più che un nodo, una storia che è andata avanti per quasi tre stagioni, fatta di colpi bassi, minacce, ripicche. Alla fine è arrivato il Monaco, orfano di Mbappé, a risolvere l’impasse. Una fuga di piedi, quelli sì buoni, a fronte di un cervello che, non ce ne voglia Balde Diao, salutiamo senza troppi rimpianti.
Salutiamo anche te, caro calciomercato, e quel tuo dolce fare contraddittorio: tu che ti sei professato devoto alla spending review, e che alla fine hai sviscerato la tua vera natura, superandoti nei modi. Come l’amico di una vita con cui parti in vacanza: “Niente alcool, domani si fa presto”, “Ma sì una birra che sarà mai”, “L’ultima e andiamo a letto”. Sulla spiaggia, alle quattro del mattino, una bottiglia conficcata tra le vertebre e il rumore del mare in sottofondo: “Nani alla Lazio quest’anno fa 15 gol”.