Nell’Iran presentatosi due anni fa al Mondiale di Russia, Saman Ghoddos aveva lavorato da centralinista. A Mohammad Reza Khanzadeh, una rissa coi tifosi nel 2015 era valsa una squalifica di 9 mesi. Ancora, Ashkan Degajah aprì un sushi-bar nel cuore di Berlino (con Boateng tra i primi clienti) e Sardar Azmoun minacciò l’addio alla nazionale poiché le critiche a lui dirette provocavano un eccessivo stress alla madre. Tante curiosità risiedevano pure tra i pali: Amir Abedzadeh è figlio del leggendario Ahmadreza (nazionale a Francia 1998), mentre Mohammad Rashid Mazaheri – oltre che per la sua discontinuità – era noto per gli oltre 42mila followes su Instagram che ne fanno un influencer.
Il terzo componente del reparto è Alireza Beiranvand, schierato titolare da Carlos Queiroz al Mondiale 2018. Lui era diventato nel 2016 il portiere iraniano più costoso di sempre: il Persepolis sborsò l’equivalente di 800mila euro pur di strapparlo al Naft Teheran e quando chiesero ad Alireza di commentare l’importo, ecco che sorrise e tacque annuendo a un forte rispetto nei confronti di quella cifra. Era nato nel villaggio di Sarab-e Yas (o Sarabias, che dir si voglia), nello shahrestān di Khorramabad e nella regione del Lorestan, figlio maggiore di una famiglia nomade con puntuale necessità di trovare nuovi pascoli per le pecore.
La pastorizia tolse tempo ed energie ad Alireza, che però amava comunque investire i pochi ritagli di tempo dividendosi tra calcio e Dal Paran – uno sport locale – con gli amici. Solo all’età di 12 anni la famiglia Beiranvand scelse di smettere col nomadismo per metter radici a Sarabias, per la felicità di Alireza che nelle sue intenzioni avrebbe lì cominciato a giocare a calcio. Nonostante la contrarietà dei genitori, Alireza ottenne una retta e, come la maggioranza dei bimbi, sognava un futuro da attaccante. Un giorno, il portiere della sua squadra s’infortunò e lui, solo perché più alto dei compagni, fu mandato tra i pali. Cominciò la sua storia.
Inizialmente storse il naso, poi s’appassiono al ruolo e provò a far digerire ai genitori una futura carriera da calciatore professionista: «A papà però non piaceva il calcio, mi chiedeva invece di lavorare e mi strappava vestiti e guanti. Ho giocato diverse volte a mani nude» raccontò a The Guardian Alireza, rivivendo una motivazione forte. Forte come quella volta in cui testardamente salì sul pullman per Teheran percorrendo i 500 km solo grazie ai soldi che un parente gli diede cosicché potesse comprarsi il biglietto.
Nella capitale iraniana conobbe Hossein Feiz, che propose al ragazzo di allenarsi con la sua squadra se avesse pagato 200mila toman (circa 30 dollari). Alireza rifiutò a malincuore, del resto quella cifra – per quanto piccola fosse – era un ostacolo insormontabile. Aveva cominciato a dormire presso la Torre Azadi, condividendo spazi angusti con migranti e senzatetto. Gli fu offerta una camera da un giovane venditore, inizialmente accettò ma cambiò idea e preferì trascorrere le notti davanti alla sede del club presso cui si allenava. «Dormivo lì, la gente pensava che fossi un mendicante. Una mattina mi alzai, notai le monete che mi avevano lasciato e pensai ‘bene, oggi farò una deliziosa colazione’».
Quando poi Feiz accettò di inserire Beiranvand in squadra gratis, chiese al capitano della squadra di fornirgli un posto dove dormire la notte. Per due settimane Alireza fu ospitato, nel frattempo cercò un lavoro e cominciò a lavorare: prima in una sartoria locale, il cui proprietario era il padre di un suo compagno di squadra, poi passò a un autolavaggio. La manualità era il suo forte, pare si fosse specializzato nel lavaggio dei suv. Come per magia un giorno Ali Daei, leggenda del calcio iraniano, da molti ritenuto il miglior calciatore della storia del paese, si recò presso l’autolavaggio in questione per lucidare il suo mezzo. Fu servito da Beiranvand, i cui colleghi lo spinsero a presentarsi, ma rifiutò: «Sapevo che se avessi parlato con il signor Daei mi avrebbe sicuramente aiutato, ma mi vergognavo di parlare con lui e parlargli della mia situazione». In ogni caso la carriera di Alireza cominciava a raffinarsi e il Naft Teheran gli diede fiducia.
Qui si ripropose il problema di un posto letto. Inizialmente Beiranvand dormiva in una sala utilizzata per pregare, dopo un po’ fu sfrattato e dunque trovò un nuovo lavoro in pizzeria. Una notte il suo allenatore si recò nel locale, il cui proprietario spinse Alireza a servire il mister: il portiere ubbidì ma, per la vergogna, decise di licenziarsi. Cominciò a fare lo spazzino, salvo rendersi conto che la fatica accumulata a pulire il parco assegnatogli mal poteva coniugarsi con l’attività sportiva. A questo punto provò ad allenarsi con l’Homa, s’infortunò e conseguentemente fu licenziato dal Naft Teheran. A quel punto il tecnico dell’Under 23 del Naft lo contattò dicendogli che sarebbe potuto tornare: «Forse era destino che il manager dell’Homa non volesse farmi firmare, se fossi rimasto in quella squadra forse non avrei mai raggiunto il mio livello odierno».
Da lì all’Under 23 iraniana il passo fu breve. Il resto è attualità, con una striscia di 12 clean sheet utili a portare il Team Melli in Russia: «Ho sofferto molte difficoltà per realizzare i miei sogni, ma non ho intenzione di dimenticarle perché mi hanno reso la persona che sono adesso». Esteticamente non sarà bello come Haghighi, probabilmente per via del naso pronunciato, ma Alireza ha progressivamente conquistato tutti anche grazie al suo marchio di fabbrica, l’ampia gittata delle sue rimesse dal fondo, eredità recuperata dalle partite di Dal Paran, gioco il cui scopo consiste essenzialmente nel lanciar pietre il più lontano possibile. Una volta rilanciò il pallone facendolo arrivare a 70 metri da lui. Nell’estate 2018 giocò il Mondiale, parò un rigore a Cristiano Ronaldo che però non bastò a oltrepassare il girone. Aveva 25 anni, voleva farsi notare per arrivare in Europa. Sogna Liverpool e PSG, squadre di un certo spessore, ma pazienza: «After all, for the nomad people, the journey never ends».