Marco Giampaolo, dopo aver concluso l’avventura sulla panchina dell’Empoli, sta cercando una nuova squadra con cui lavorare. Il tecnico ha rilasciato un’intervista alla Gazzetta dello Sport, in cui ha ampiamente parlato della sua carriera da allenatore, del suo modo di vivere il calcio e guidare i suoi giocatori.
L’Empoli, nelle sue mani, ha chiuso il campionato al decimo posto, sorprendendo tutti. Come ci è riuscito? “Con la qualità, prima di tutto. Non so quante squadre in Italia avessero un centrocampo qualitativo come il nostro: Paredes, un ex trequartista, come play; Zielinski, centrocampista moderno, che fa gol, assist, recuperi; Croce o Buchel dall’altra parte. E Saponara, per me l’emblema del giocatore perfetto: qualità, corsa e lavoro. Poi serve l’organizzazione collettiva: è quella a permetterti di sorreggere la qualità“.
Il lavoro fatto precedentemente da Maurizio Sarri con la squadra toscana ha certamente aiutato Giampaolo: “Sono arrivato in una squadra che veniva da lontano, abituata a lavorare in un certo modo da anni. Andavano a memoria. Se porti avanti un gruppo per anni, hai dei vantaggi: devi solo perfezionare. Altrimenti c’è bisogno di tempo, perché per addestrare la squadra a muoversi collettivamente serve tempo. Che devi riuscire a guadagnare mettendoci dentro qualche risultato, se no ti mandano a casa. Io a Empoli ho osservato e ho iniziato a interagire con discrezione. Mi sono guardato e riguardato tutte le partite dell’anno precedente e poi ho iniziato a trasmettere la mia idea di calcio. Noi forse rispetto all’anno scorso abbiamo cercato più il palleggio e meno la profondità. La cosa più bella me l’ha scritta Maccarone, cioè che sono rimasto nel cuore di tutti per la mia coerenza e modo di fare“.
Lui e l’allenatore del Napoli hanno delle idee in comune sul calcio. Ed è stato proprio Sarri a volere fortemente che il suo successore fosse il ticinese. Tecnica, tattica e una concezione comune di come gestire lo spogliatoio: “Con le big non bisogna essere passivi. Creare autostima, consapevolezza. Magari perdere, ma andare a giocarsela. È qualcosa di ambizioso, è questione di mentalità. Organizzare una squadra collettivamente è la strada più lunga, ma nel medio-lungo periodo paga di più. Poi l’impostazione dipende dalle caratteristiche dei giocatori: io avevo una squadra poco fisica, quindi più lontano mi difendo meno rischi corro. Però devo avere giocatori veloci dietro, in grado di recuperare la profondità“.